Giuseppe Grattacaso
#boycottqatar2022

Colombo in Qatar

Eric Cantona ha suggerito di guardare il Tenente Colombo invece dei Mondiali in Qatar. Noi lo abbiamo fatto, cominciando dal primo episodio della serie. Era il 1971, il mondo era diverso, le paure erano diverse, il calcio era diverso, la fantasia era diversa...

Ho già visto il primo episodio della prima serie. Un tempo li chiamavamo telefilm. Per Eric Cantona non ci sono dubbi, esistono cose più importanti del calcio. Tra queste, il tenente Colombo. Invece che i mondiali del Qatar, King Eric, marsigliese con qualche campionato all’Olimpique prima di approdare a Manchester sponda Red Devils, si riguarderà tutti gli episodi del tenente Colombo, perché «non voglio fare parte di questa grande farsa», dice.

Per la cronaca, il regista del primo episodio (titolo originale Murder by the Book, uscita il 15 settembre 1971) è Steven Spielberg. Lo ricordo tanto per invogliare qualcun altro a seguire l’esempio di sua maestà Cantona, nella fattispecie capitano della squadra dei ribelli ai mondiali della vergogna (del moto di ribellione ha già limpidamente e ampiamente enunciato le ragioni Gianni Cerasuolo su queste stesse pagine). D’altra parte l’attaccante, padre di origini sarde mamma catalana, tanto per dare le coordinate di un certo dna da irriducibile, già a 21 anni aveva affermato, senza alcuna reticenza e con l’indispettita sincerità che poi diventerà un suo marchio di fabbrica, «il calcio conta troppo poco nella mia vita, perché mi prostituisca».

Già nella prima sua indagine, anche negli interni presumibilmente riscaldati, al cospetto di interlocutori in abiti meno autunnali, Peter Falk, l’aria sorniona dell’investigatore che sembra sempre non arrivarci, si gioca tutto il suo fascino blasé protetto dall’impermeabile di ordinanza, una volta bianco. Una volta, del resto, li chiamavamo trench. E una volta si usavano loden e montgomery e d’inverno faceva freddo.

Una volta c’era il calcio. Il 25 settembre del 1971, 10 giorni dopo l’uscita del primo episodio del tenente Colombo, la nazionale italiana gioca in amichevole a Genova contro il Messico. La formazione: Zoff, Burgnich, Facchetti, Spinosi, Cera, Bertini, Mazzola, De Sisti, Boninsegna, Corso, Riva. Cera è il “libero”, Mazzola chissà in che ruolo gioca, Facchetti è il “terzino” con lasciapassare per superare la linea mediana del campo. Altri nomi per indicare i compiti da svolgere, altra mentalità. È l’ultima partita in nazionale di Mariolino Corso. Gigi Riva rientra da un grave infortunio. Gli altri giocano tutti per farlo segnare, ma i due gol con cui l’Italia vince li realizza Boninsegna. Non ci sono tagli di capelli da star, nessun tatuaggio (a quel tempo appannaggio esclusivo di marinai e galeotti, li chiamavamo così), nessuno si sfila la maglietta dopo aver segnato un gol per mostrare il fisico scolpito, anche perché il calcio in quegli anni non ha bisogno di fisici scolpiti. È un calcio che non esiste più, è parte di un altro mondo.

L’emirato del Qatar, di fatto una monarchia assoluta, due milioni e mezzo di abitanti, di cui più della metà vivono nella capitale Doha, diventa indipendente proprio all’inizio di settembre del 1971, e il 21 settembre entra a far parte dell’ONU. In quel mondo lì, quello degli anni Settanta, per esempio, non si parla ancora di riscaldamento del pianeta e le questioni ambientali sono solo un argomento da iniziati. L’insetticida in uso anche nelle case è il DDT. Lo chiamavamo anche Flit e si spruzzava attraverso ridicole pompette metalliche, design veterofuturista ad uso familiare. Qualche anno dopo abbiamo scoperto trattarsi di un inquinante organico persistente e la Convenzione di Stoccolma del 2001 ne ha proibito l’uso (senza però dire cosa utilizzare nei paesi infestati dalla malaria).

La questione ambientale, insieme a quella dei diritti civili, si pone in maniera molto netta nel caso dei mondiali in Qatar, non fosse altro per le temperature elevate (gli stadi vanno refrigerati) e perché il territorio è quasi interamente desertico e il calcio, si sa, si gioca sull’erba, preferibilmente non sintetica. Tutto questo pare comporterà un gran dispendio di risorse energetiche. Insomma, proprio mentre il mondo tutto è chiamato a uno sforzo imponente per modificare gli stili di vita con l’obiettivo di salvare il pianeta, o meglio di salvare la nostra presenza sul pianeta, il calcio sembra non preoccuparsi e lancia un messaggio di segno diametralmente opposto. Va detto comunque che l’imponenza dello sforzo per ora non si è vista, e anche lo sforzo è piuttosto sfumato.

Sarebbe il caso che per le grandi competizioni internazionali che richiedono molti impianti, e di notevole livello tecnologico, si comincino a utilizzare strutture già esistenti. Meno risorse impiegate, meno energia, meno sprechi, meno utilizzo irresponsabile del territorio. Ma gli stati, come gli atleti, hanno bisogno di mostrare i fisici scolpiti, di levarsi la maglietta e liberare i muscoli tatuati, di prorompere in improbabili capigliature. Il nostro futuro è a rischio? Il pianeta arranca sotto una coltre di calura e di gas tossici? Il tenente Colombo è costretto a liberarsi dell’impermeabile anche in pieno inverno? Noi costruiamo prati verdi nei deserti, perché lo spettacolo possa continuare. E lo spettacolo oggi vive nel bisogno di rinnovarsi continuamente, di apparire sempre più grande e più bello, più sorprendente.

In Qatar sono morti migliaia di lavoratori perché fosse possibile l’apertura del sipario davanti alla folla sbalordita. In Qatar i diritti civili sono in buona parte negati. Oggi però il problema più grande sembra essere il divieto (parziale) alla consumazione degli alcolici. Perché l’altro grande punto di riferimento della nostra società è il diritto al divertimento. Come faranno gli spettatori senza l’aperitivo prima della partita?

Così in qualche modo ha anche ragione il presidente della Fifa Infantino, quando fa notare che un po’ di ipocrisia in meno non guasterebbe. Gli stadi nel deserto sono macchine da scena, palcoscenici tecnologicamente avanzati, che come le lavatrici dureranno solo pochi anni, ma sui quali siamo tutti disposti a salire.

Quasi tutti. Sotto il sole del Qatar c’è un tifoso che ciabatta nel deserto, a poca distanza dallo stadio che intende raggiungere. Solleva una nuvola di sabbia, ha l’aria contrariata e svagata, indossa un trench una volta bianco. Un attimo prima di varcare l’ingresso per entrare nella tribuna climatizzata, si arresta perplesso, alza la mano, si volta, torna sui suoi passi.

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