Anna Camaiti Hostert
Cartolina dagli Usa

L’Altra America

Il risultato delle elezioni di midterm, con la solida tenuta di Biden, ha smentito i sondaggi. Cerchiamo di capire perché opinionisti e commentatori non hanno colto il sentimento profondo di un Paese abituato a guardare al futuro

A quasi una settimana dalle elezioni di midterm ancora non si hanno risultati definitivi. A causa di un sistema elettorale ormai obsoleto che prima o poi dovrà essere cambiato, i tempi per i conteggi sono lunghi e complicati. Si può tuttavia avere un quadro relativamente chiaro di dove si andrà a parare. I democratici hanno raggiunto una risicatissima maggioranza (1 voto) al Senato. C’erano 4 stati in bilico; di questi ne hanno conquistati tre, Arizona, Nevada e Pennsylvania, mentre dovremo attendere il ballottaggio che si terrà a dicembre per avere i risultati definitivi della Georgia. Sembra tuttavia che i repubblicani conquisteranno una ridotta maggioranza (per ora siamo a meno 10 seggi) alla House of Representatives.

Dunque è andata diversamente dalle previsioni che davano per scontata una vittoria di grande portata dei repubblicani. Certamente un primo dato salta agli occhi: molti dei candidati sostenuti da Donald Trump hanno perso e si è fatto avanti un nuovo candidato repubblicano, Ron Desantis eletto con grande maggioranza di voti governatore della Florida che quasi sicuramente sarà uno dei cavalli su cui punterà il partito  alle presidenziali del 2024.

Dunque le previsioni e anche la sensazione del disastro democratico fatte prima delle elezioni erano errate. Come abbiamo ripetuto più volte, di solito le elezioni di midterm risultano sempre negative per il partito del presidente al governo, mentre questa volta c’è stata un’inversione di tendenza. Perché? Non succedeva dai tempi di JFK che nel 1962 riuscì, approfittando di una inflazione molto bassa e della crescita del GDP nazionale, a guadagnare tre seggi al Senato che consentirono ai democratici di conquistare la maggioranza. La differenza con i tempi di Kennedy è che Joe Biden ha uno dei tassi di gradimento più bassi tra i presidenti del dopoguerra e non ha nessuna delle due carte vincenti di Kennedy: l’inflazione è quasi all’8% e l’andamento della crescita del prodotto nazionale lordo che di solito marca le previsioni di quale partito sarà il favorito, è stato decisamente negativo.

E allora casa è successo? Quali considerazioni fare su questa inversione di tendenza?

Forse nell’epoca dei big data l’industria dei sondaggi non va presa alla lettera come si è fatto negli ultimi tempi anche a causa dell’esistenza dei cellulari, della bassa e non sempre veritiera risposta ai sondaggi, dei caller ID e di molti altri fenomeni nell’epoca dei social media. C’è un margine di errore consistente e di grande portata. Il paese è certamente diviso e polarizzato come i numeri dimostrano, ma bisogna dire che i sondaggi, a dispetto di tutto ciò che si è sventolato in giro, non hanno colto il mood del paese. Inoltre mi pare siano stati troppo sottovalutati il significato del tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021 messo in atto dai sostenitori di Trump e l’abolizione nel giugno di quest’anno da parte della Corte Suprema del diritto all’aborto (quella Roe versus Wade che esisteva fin dal 1973) con la conseguente competenza in materia rimandata ai singoli stati. Molti di essi, soprattutto quelli del sud, a maggioranza repubblicana già più volte in passato avevano richiesto la possibilità di legiferare contro quel diritto. Senza considerare tuttavia come le donne nel paese hanno vissuto e vivono il dramma dell’aborto Sarà interessante, una volta finito lo spoglio delle schede elettorali, avere un quadro di quante donne sono andate a votare, dove e a quali minoranze etniche esse appartengano. Questi due fatti hanno convinto più persone del previsto che gettare in una crisi di identità’ strutturale un sistema pur con tutte le incrinature e i difetti che ha ed ha avuto in passato, forse non vale la pena. Non dimentichiamo che Joe Biden, gli ex presidenti Barack Obama e Bill Clinton hanno parlato in queste elezioni di pericolo per la democrazia americana.

Il filosofo Richard Rorty deceduto ormai nel 2006 già nel 1998 aveva preannunciato l’arrivo di uno strongman a la Trump in cui si sarebbero riconosciuti tutti coloro le cui voci non sono state negli anni ascoltate dal partito più vicino a loro, quello democratico. E queste voci includevano, tra gli altri, i lavoratori sindacalizzati e non che vedevano restringersi le possibilità di impiego e perdevano il lavoro in quando molte aziende spostavano le loro manifatture all’estero perché meno costose, i colletti bianchi dei sobborghi che non intendevano pagare le tasse per i social benefits di quelli che non li avevano e gli esponenti della grande finanza che vedevano sicuramente in Trump un alleato che avrebbe favorito i loro affari. Questo strongman- scriveva Rorty “avrebbe garantito che burocrati pieni di sé, avvocati di pochi scrupoli, venditori troppo pagati, professori postmoderni non avrebbero più dettato legge”. E in questo il filosofo americano ha davvero anticipato il futuro. Ma la vittoria di Trump ha rappresentato anche un’altra previsione di Rorty e cioè quella che il sistema americano mostrasse dei crack di enorme portata che dovevano essere risolti. E certo queste elezioni non scongiurano il pericolo di cui si è parlato. Anzi la polarizzazione del Pese evidenzia che i rischi che già ci sono possono diventare endemici e possono anche portare a situazioni di ribaltamento di quell’esperimento che si chiama America.

Nel suo libro Achieving Our Country, un’espressione mutuata dal romanziere James Baldwin, Rorty evidenziava infatti la caratteristica di esperimento che l’America rappresenta, quello stesso messo in evidenza in termini poetici da Walt Whitman, e che Rorty sposava in pieno. Una storia che si scrive nel momento in cui si fa da parte di cittadini-attivisti, un esperimento che deve tenere conto di riforme specifiche che proteggano e incrementino le fondamenta del paese e siano rilevanti per esso, proprio nel momento in cui vengono esposte le sue incrinature profonde. “La nostra essenza è la nostra esistenza e la nostra esistenza è nel futuro – scrive Rorty. Un ottimismo che fa parte del DNA del paese e che abbiamo ritrovato nel riformismo di Obama e perfino nel populismo economico di Bernie Sanders. Una combinazione di cui forse il partito democratico dovrebbe tenere conto.

Facebooktwitterlinkedin