Danilo Maestosi
L'arte e il paesaggio

Monumento alla vita

A Formello, Vinicio Prizia ha realizzato una sorta di cancellata sul mondo: un monumento alla vita e alla memoria da recuperare. Uno spazio simbolico che richiama i cittadini al loro senso comune e alla loro storia

Tempi grami per i monumenti in questo scorcio di terzo millennio che corre troppo in fretta per chiedersi da dove viene e dove sta andando. Neanche la solida consistenza del marmo e del bronzo riesce più a garantire uno scudo di aura e durata alle statue di eroi, condottieri, santi, funzionari coraggiosi che le epopee del passato hanno eletto a modello. Figurarsi ai facsimile di malintese virtù che qualche raro capriccio di convenienze di oggi vorrebbero consegnarci in piazza ad esempio. Rischiano lo stesso destino di ghigliottina e rimozione che gli emblemi di dittatori e tiranni si sono conquistati con i loro massacri. Al meglio lo sberleffo o il dileggio da vandali. Perché non c’è personaggio congelato in effigie che non si trascini appresso una debolezza, un errore, un peccato nascosto che, sottraendolo al suo contesto, come è sempre più uso nei tribunali sommari del politicamente corretto, non l’esponga al rifiuto, all’abrogazione o alla gogna. Senza alcuna bilancia di caratura. Sta capitando alle centinaia di Cristoforo Colombo negli Usa e all’unica copia omaggio dedicata a Indro Montanelli a Milano, due icone inconfrontabili dell’Occidente colonialista e suprematista.

Si salvano per ora – e neanche tutti – i mausolei e i templi dell’architettura, esposti comunque agli sfregi della speculazione e della cattiva urbanistica. E i capolavori d’arte all’aperto, specie quelli che fanno da calamita e cassetta per il turismo di massa.

Credo che per sopravvivere a questa bulimia cannibale e continuare a far sentire la sua voce la categoria in crisi dei monumenti all’aperto dovrebbe ricorre alla ricetta omeopatica di un radicale dimagramento. Perdere peso, non solo accantonando l’uso di materiali nobili e di tradizione, che rendono obesi anche i pensieri. Ma con un drastico ridimensionamento di pretese e ambizioni. E con la fuga da scelte ancorate a scenari e ribalte gettonate di scala metropolitana, sempre più contese dall’effimero delle istallazioni grandi firme che garantiscono buona stampa e si adattano ai nuovi gusti della critica, del mercato e del collezionismo. Corteggiare un pubblico periferico, frantumato e poco addestrato alla riflessione senza imporgli imperativi assoluti, ma lanciandogli segnali che possano generare altre direzioni di vita e di sguardo.

Adattare al culto della memoria la stessa fluidità della società di oggi che ci blandisce, disperde e sgomenta. Insomma insegnare ai monumenti a volare. Accollandosi il rischio che possano precipitare, come è successo a tanti pionieri del volo.

Sono caratteristiche che ho ritrovato in un singolare e stimolante prototipo di monumento en plein air che ho scoperto a Formello. Sulla carta nient’altro che una cancellata, derubricata di pretese educative dal suo carattere ordinario e burocratico di intervento di arredo urbano a basso costo. E dal suo scopo primario di proteggere dal vandalismo nottambulo uno spazio centrale d’uso pubblico che aspira a diventare una piazza e a poco a poco lo sta diventando. Compensando un vistoso vuoto di ritrovo e socialità di un paese alle porte di Roma come Formello, diventato un dormitorio di pendolari, il corso principale annegato in un anonimo e insidioso stradone a tornanti consegnato alle macchine che vanno e vengono verso colline invase da villini e casette di egocentrico benessere

Niente di che, a prima vista, quella piazza dove il verde del giardinetto che era un tempo è quasi scomparso, sostituito da scalette in cemento e mattoni, pavimenti lastricati, gradoni di un piccolo anfiteatro, che certo rendono più agevole la manutenzione. Una conca dove l’occhio va a sbattere contro le facciate anonime delle case che lo circondano. Insomma un non luogo che rispecchia le trasformazioni e la perdita di identità di un ex borgo contadino di antica fondazione precedente all’inarrestabile ascesa di Roma dei re, dei consoli e dei Cesari, rimasto congelato come feudo di caccia dei nobili Giustiniani e poi esploso in un agglomerato di cemento. Ma se ti affacci a guardare un po’ meglio i bambini allegri che giocano, le mamme sulle panchine, i gruppetti di ragazzi che hanno eletto i gradini a muretto di confidenze e corteggiamenti, il palco montato nell’unico spiazzo in pianura dove ci si prepara a un concerto, scopri il respiro consolante di una scintilla di vita collettiva in embrione che forse può rimettersi in moto, riscoprire il piacere di volare più in alto, fare e inventare domande.

È la scommessa da cui è nata la cancellata che ora recinta da tre lati la piazza. Una scommessa d’autore, firmata da Vinicio Prizia, un artista-artigiano sulla soglia dei sessanta, solida carriera alle spalle, impegnato da decenni in una dura battaglia per sottrarre se stesso e il suo paese d’adozione dal torpore di una vita di abitudini in seconda fila. Usando come tribuna e trincea un laboratorio di grafica che ha praticamente fondato ed ora è tornato a dirigere, facendo tesoro di una tecnica appresa al fianco di un maestro d’eccezione come Jean Pierre Velly, scomparso tragicamente anni fa, che la Francia ha incoronato tra i più grandi incisori del secondo Novecento.

Da questa profonda passione per il segno nasce il colpo d’ala che consente a quella cancellata di Prizia di aspirare al titolo di monumento per i monumenti che verranno, e a lui di candidarsi da apripista di un nuovo potenziale filone della scultura ambientale. È il salto dalla seconda dimensione del disegno e della pittura alla terza della forma a rilievo, che ha compiuto affidando una lunga striscia di incisioni ispirate ai paesaggi e alla bellezza di Formello ad un’officina industriale perché lo riproducesse in una grata di ferro battuto che occupa come un corpo d’attore il palcoscenico. Fin qui troppo poco per invocare il copyright, solo il riannodare il filo di una sfida inaugurata dall’Art Nouveau, proseguita con gli esperimenti di contaminazione sofisticata del Bauhaus e con le derive più commerciali del design, storie d’idee che partono comunque da uno schizzo.

Inedito o quasi è invece il secondo passaggio che completa il viaggio di andata verso la scultura con un ritorno alla dimensione piatta, magra e allusiva del disegno. L’intero recinto, nonostante lo spessore a barre brunite, è come un catalogo di incisioni al quale Prizia affida la sua ricerca di verità senza tradire mai la concisione e gli artifici di verticalità di una stesura lineare. La confessione di un prestigiatore che a fine spettacolo rivela i suoi trucchi agli osservatori in platea, senza remore di appartenenza, liberandolo dal timore che la magia sia un traguardo irraggiungibile e non un orizzonte di mistero umano da arricchire e completare ognuno a suo modo, come consiglia – e non impone (questo fanno in genere i monumenti) l’adesione emotiva ad un’opera d’arte che ti ha colpito dentro, ti ha incollato addosso un paio d’ali invisibili.

I riquadri disegnati da Vinicio Prizia, rivolti come sono alla platea dei frequentatori di quel giardino infossato, che non offre respiro né alcuna consolazione allo sguardo, vanno visti e sfogliati come un libro d’istruzioni per evadere dalla gabbia della rassegnazione e delle pigre abitudini ,che non offre futuro ai condomini di Formello ,e recuperare orgoglio di campanile e senso di appartenenza , restituendo alla memoria e allo sguardo il panorama dei tesori e degli orizzonti d’incanto che il paese ha forse dimenticato di possedere. Una lunga fascia della recinzione li passa uno per uno in rassegna, come sorvolasse dall’alto l’intero perimetro del borgo. Per gli abitanti del posto il gioco facile del riconoscerli, per chi viene da fuori l’invito a visitarli. Ecco Il santuario della Madonna del Sorbo. Ecco il laghetto della Mola. Ecco il tumulo di quella tomba che porta il nome dei Chigi (cui appartiene il castello-museo lì a due passi che era il loro casino di caccia ed ora accoglie anche il Comune), ad evocare la ricchezza e la morbida gioia di vivere della Civiltà etrusca, che quasi tremila anni fa abitava e governava questa contrada inclusa nel regno di Veio, espugnata dalle armi di Roma.

E poi ancora più coinvolgente perché resta a portata di tutti se solo si ha la voglia di raggiungere le balconate d’affaccio su in alto, ecco l’infinito di meraviglie che prolungano e dilatano i confini di Formello in un abbraccio indimenticabile. Ecco emergere dalla ragnatela concisa dei segni le colline del Frusinate, le cime più alte dei Castelli romani, il bagliore lontano da miraggio del mare. Inquadrata così da lontano perde senso di minaccia anche la marmellata di intonaci, cemento e mattoni della città che avanza. C’è ancora molto da salvare se ci si impegna a sottrarre allo scempio quella distesa di campi coltivati, quelle guglie d’anima e di vita dei pini e altri alberi secolari su cui il bulino di ferro di Vinicio Prizia si sofferma in continuazione e richiama in primo piano, agitandone come bandiere le chiome.

Contagiato da un’ebrezza da Icaro, il talento visionario di Vinicio Prizia perde a questo punto ogni bussola di prudenza e ancoraggio al suolo, si lancia sulla scia fuggiasca della memoria in voli ancora più spericolati verso altre irraggiungibili geografie. Ora si sbilancia all’indietro, verso il passato remoto scolpendo sulla cancellata d’ingresso in fondo al giardino come un testamento da decifrare, una carta d’identità da recuperare e esibire, le lettere dell’alfabeto etrusco. Ora si proietta su in alto, ricamando su quella porta che chiude la discesa al giardino, a restituire l’immensità con cui dobbiamo misurarci, l’intera volta delle costellazioni, prima di soffermarsi in un altra fascia di sbarre a restituire proporzioni alla sfilata dei pianeti che ruotano insieme alla nostro piccola Terra attorno ad un Sole raffigurato come un mascherone di spine luminose al tramonto.

Tempo e spazio che si accavallano nella relatività di ogni vita e ogni forma, generando profezie e paradossi, lungo la strada aperta dalle teorie di Einstein e proseguita dalla fisica quantistica. Un tuffo nelle vertigini della scienza e dell’infinitamente piccolo che lo scultore incisore affida alla icona di un buco nero, reso da una sorta di imbuto che inghiotte spirali di linee incurvate, e a un lungo fazzoletto di onde increspate, che agli spettatori più esperti può evocare il mare in tempesta di Helgoland che ispirò le intuizioni del giovane Heisemberg, uno dei padri fondatori della fisica quantistica.

Prizia spera di portare intere scolaresche a fare lezione davanti a quel suo monumento così denso di citazioni e rimandi. E fantastica bambini in fila a leggere le targhe che conta di applicare al più presto per battezzare tutti i capitoli della sua composizione. A me sembra che il modo più intonato di celebrarne l’effimera, strampalata leggerezza che lo rende così unico, sarebbe quella di visitarlo e lanciargli occhiate con un girotondo. Immaginare quelle classi, insegnanti, familiari e parenti, buone e cattive lingue al seguito, che si stringono per mano e gli danzano intorno, come nel finale di un film di Fellini.

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