Raoul Precht
Periscopio (globale)

Le ferite di Pizarnik

A cinquant'anni dalla tragica morte, è il momento di rileggere i versi dell'argentina Alejandra Pizarnik: «Scrivere poesie significa riparare la ferita fondamentale, lo squarcio di cui tutti soffriamo, eliminando innanzitutto le parole superflue»

Certi poeti sono come meteore. Vengono, sparigliano, vanno – e poi si scopre che qualcosa è cambiato. Uno di questi è senz’ombra di dubbio Alejandra Pizarnik, poetessa argentina amica fra gli altri di Cortázar, Paz, Pieyre de Mandiargues e Silvina Ocampo, morta cinquant’anni fa, il 25 settembre 1972, a Buenos Aires. Da poco aveva compiuto trentasei anni, e sebbene non vi sia una certezza totale è presumibile, stando a diversi indizi, che la morte, per una overdose di barbiturici, sia stata non naturale ma voluta, il che la iscriverebbe nella lunga lista dei poeti che nel Novecento scelsero di porre fine ai loro giorni, da Celan a Majakovskij, da Trakl a Esenin, da Marina Cvetaeva a Sylvia Plath, da Jarrell a Berryman, da Anne Sexton a Ingeborg Bachmann. Ma le ragioni dell’atto compiuto sono di volta in volta talmente diverse da rendere la compilazione di un simile elenco tutto sommato inutile e marginale.

L’ennesimo suicidio di un poeta, dunque. Ma, come giustamente rileva Claudio Cinti, curatore dell’antologia La figlia dell’insonnia edita da Crocetti nel 2015, quest’atto finale ha in qualche modo pregiudicato la ricezione, tanto nel mondo di lingua spagnola, quanto all’infuori di esso, dell’opera della Pizarnik, e le sue poesie sono state lette principalmente alla luce di una circostanza biografica senza dubbio importante, ma non poi così illuminante o decisiva, impedendo un approccio più circostanziato ed equilibrato alla sua opera poetica e spesso anche falsando il giudizio di valore. Si è partiti in altre parole dal suicidio per presentare la Pizarnik come una sorta di squilibrata o di eterna disperata, interpretandone l’opera unicamente alla luce del gesto finale, con una semplificazione e una banalizzazione che sconcertano e rischiano di ridurre l’atto critico all’esercizio di una curiosità morbosa. E certo non ha aiutato il fatto che la poetessa sia poi diventata un “caso” letterario, raggiungendo tirature a cui la poesia di solito neanche può aspirare e provocando quelle distorsioni e idealizzazioni che fanno pensare a un altro caso degli ultimi decenni, quello di Frida Kahlo, che nella sua costruzione mitica è in qualche misura comparabile.

È bene quindi partire proprio dall’antologia curata da Cinti per cercare di isolare almeno alcuni elementi caratteristici della poetica della Pizarnik. Il primo di questi elementi, ben rilevato dal prefatore Enrique Molina, è la sua estraneità a tutto, e in particolare a se stessa, come se questo personaggio cui attribuisce il nome di Alejandra fosse un’altra, una sconosciuta che la mette alle strette con le sue incalzanti domande. La brevissima poesia “Sólo un nombre” della prima raccolta, La última inocencia (1956), si compone di appena tre versi, che non necessitano neanche di traduzione o commento: “alejandra alejandra / debajo estoy yo / alejandra”. Ecco che, insieme alla maiuscola, a scomparire subito è l’identità individuale, e con essa scompaiono al tempo stesso, e auspicabilmente, tutti quei dolori e quei colpi del destino che contribuiscono a formarla. Ma sarà davvero così? O piuttosto il nome, che peraltro Alejandra si era scelta (alla nascita, il 29 aprile 1936, era stata infatti battezzata Flora) non è sempre associato, nella sua opera, a un senso di identificazione e di paura?

Il secondo elemento è un misterioso senso della fatalità, che prima ancora di applicarsi all’epilogo, e dunque alla morte autoinferta, riguarda le ferite altrettanto autoinferte con il procedere dell’esistenza, dall’infanzia ormai perduta – e con questa perdita Alejandra non riuscirà mai a fare i conti – a una maturità mai accettata. Della prima, vissuta in una famiglia di ebrei russi immigrati in Argentina e scampati all’Olocausto e contrassegnata da accessi di asma e da una timidezza che si traduceva in balbuzie, scrive in particolare in “Tiempo”, nella seconda raccolta, Las aventuras perdidas (1958): “Yo no sé de la infancia / más que un miedo luminoso / y una mano que me arrastra /a mi otra orilla.” [Io non so dell’infanzia / che un timore luminoso / e una mano che mi trascina / sull’altra mia sponda.] Il rapporto con l’infanzia è particolarmente intenso, tanto che per tutta la vita la Pizarnik avrà difficoltà a riconoscersi come donna, e continuerà piuttosto a sentirsi un’eterna bambina, con delle effusioni nei confronti degli altri che ad alcuni di loro sembreranno persino imbarazzanti. La maturità, in compenso, compare nel componimento “La noche” avvolta in una spessa oscurità: “Poco sé de la noche / pero la noche parece saber de mí / y más aún, me asiste como si me quisiera, / me cubre la conciencia con las estrellas. / (…) Pero la noche ha de conocer la miseria / que bebe de nuestra sangre y de nuestras ideas. / Ella ha de arrojar odio a nuestras miradas / sabiéndolas llenas de intereses, de desencuentros.” [Della notte so poco / ma di me la notte sembra sapere, / e più ancora, mi assiste come se mi amasse, / mi ammanta di stelle la coscienza. / (…) Ma la notte conosce la miseria / che succhia il sangue e le idee. / Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi / che sa pieni di interessi, di incontri mancati.] Va ricordato in questo contesto che nella poesia della Pizarnik la notte emerge spesso come momento di verità e di disvelamento, annulla le convenzioni asfittiche del giorno e permette l’incontro con l’identità più profonda dell’essere. Nella doppia polarizzazione giorno/notte e vita/morte le equivalenze sono opposte rispetto alla convenzione: la notte si apparenta alla vita e la morte al giorno.

Alejandra Pizarnik (rielab. Succedeoggi)

Il terzo elemento è appunto l’assidua presenza della morte, o almeno della sua idea, che percorre la decina di raccolte che la Pizarnik ha fatto in tempo a pubblicare in vita. Presenza di cui la poetessa era più che consapevole, che da elemento esterno si trasformava in realtà interna e soggettiva e che poteva essere depistata e ingannata nella poesia solo attraverso una mania di vivere che di volta in volta la poetessa definirà “lugubre” o una “facezia”, a confronto con la serietà che la morte invece assume.

Introducendo il volume poetico Árbol de Diana, pubblicato dalla Pizarnik nel 1962, Octavio Paz scrisse che la sua poesia non conteneva una sola particella di menzogna, ed è forse questo a rendercela così cara, da un lato, e così difficilmente sopportabile, dall’altro. Paz continua la sua perorazione parlando di solitudine, concentrazione e sensibilità, tre componenti deputate a creare poesia di cui certo la Pizarnik non difetta. Al contrario, la loro presenza è talmente dispotica da far passare in secondo piano anche i momenti di scarsa ispirazione, o quelli in cui la maniera di un certo maledettismo ancora ottocentesco sembra balenare fra le righe, saldandosi con quell’immagine di una Pizarnik androgina, fumatrice, spettinata, sessualmente molto attiva (in tempi, gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ancora pruriginosi) e abbigliata in modo anticonvenzionale con la quale viene spesso associata. Ma sono, appunto, momenti, brevi cedimenti; molto più frequenti le fasi in cui, come scrive in “Verde paraíso” nella raccolta Los trabajos y las noches (1965), “…vecina de lejanas luces / atesoraba palabras muy puras / para crear nuevos silencios” […vicina a luci lontane / facevo tesoro di parole purissime / per creare nuovi silenzi]. La concentrazione di cui parla Paz è fatta di brevità, precisione e forza del dettato poetico, ma anche di una certa reticenza e di un gusto per le ellissi. La Pizarnik non spreca una sillaba, distilla e riduce le sue poesie allo stretto necessario, costringendo se stessa a una serie di limitazioni lessicali e sintattiche che, come scriverà Alberto Manguel, ne rendono il discorso “duro y brillante como los diamantes”. E ancora, si potrebbe forse aggiungere una quarta qualità, che mi sembra preminente, un’estrema e sconsolata lucidità, che si applica anche ai rapporti umani e sentimentali. Nella stessa raccolta troviamo per esempio questa indicazione: “No el poema de tu ausencia, /sólo un dibujo, una grieta en un muro, / algo en el viento, un sabor amargo” [Non la poesia della tua assenza, / soltanto un disegno, una crepa in un muro, / qualcosa nel vento, un sapore amaro. – Cito qui dalla traduzione di Roberta Buffi in Poesia completa, Lietocolle 2018.]

Lucidità e disincanto che conducono talora a empiti di disperazione, certo. Ed è altrettanto certo che non mancano istanti in cui ci sembra di poter prefigurare la fine, per esempio in poesie come “Silencios”, che recita: “La muerte siempre al lado. / Escucho su decir. / Sólo me oigo.” [La morte sempre al fianco. / Ascolto il suo dire. / Odo me sola.] Ma trasferire pedissequamente il dettato poetico nella vita reale, e viceversa, solo perché la fine è nota, sarebbe un grave errore; rischierebbe infatti di farci ignorare la complessità e la ricchezza dell’esperienza letteraria di quella che è stata anche, o forse anzitutto, una valente traduttrice (fra l’altro di un poeta tanto diverso da lei qual è stato Yves Bonnefoy) e una mediatrice culturale, e che per prima non si sarebbe lasciata ingenuamente ingannare (e trascinare) da una stolida equivalenza fra arte e vita.

Rarefatti come sono e come sempre più, con il passare degli anni, diventano, i versi di Alejandra Pizarnik rappresentano anche una profonda meditazione sul silenzio, che a più riprese compare (e ciò potrebbe sembrare contraddittorio) in un’opera dai tratti eminentemente comunicativi. Il silenzio come rifugio e come linguaggio “altro”, alternativo a quello convenzionale (compreso il linguaggio poetico dei suoi contemporanei). Ma già in una lettera del 1963 a un’amica se la prendeva con la poesia intesa come gioco, stigmatizzando il gongorismo quale ricerca di belle parole che hanno però perso qualunque significato reale. (L’epistolario è stato pubblicato in italiano con il titolo L’altra voce. Lettere 1955-1972 da Giometti & Antonello nel 2019.) In “Caminos del espejo”, presente nella raccolta Extracción de la piedra de locura (1968), si esprime poi così: “Pero el silencio es cierto. Por eso escribo. Estoy sola y escribo. No, no estoy sola. Hay alguien aquí que tiembla.” [Ma il silenzio è certo. Per questo scrivo. Sono sola e scrivo. No, non sono sola. Qui c’è qualcuno che trema.] E in “Fuga en lila”, nella raccolta El infierno musical (1971), ricorda che “el silencio es tentación y promesa” (anche qui non c’è bisogno di traduzione). Per raggiungere questa promessa l’unica via è la depurazione del linguaggio da tutte le scorie che lo avvelenano.

In un’intervista rilasciata poco prima di morire, nel 1972, Alejandra Pizarnik disse che scrivere poesie significa riparare la ferita fondamentale, lo squarcio di cui tutti soffriamo, eliminando innanzitutto le parole superflue, quelle che usiamo nella vita quotidiana ma che sono ormai logore e sprovviste di significato. Fatta questa necessaria pulizia, depurato il linguaggio dalle sue scorie e l’esistenza da quanto vi è d’inessenziale, deve restare unicamente la parola poetica, a guarirci e condurci verso quel silenzio perfetto che per tutta la vita la Pizarnik aveva inseguito e di cui forse alla fine ha intravisto un’ombra.

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