Loretto Rafanelli
“Esercizi di distanza” di Roberto Veracini

La luce dentro

Si espone alle più dure verità il poeta di Volterra. Tra ricordi, confronti con la realtà, dubbi, sensazioni sospese, mancanze, danni del tempo. Versi sintetici, senza lamenti, pieni di tenerezza e della stessa luminosità di cui scintilla il luogo natio

«Quattro versi e un titolo», possono raccontare in modo adeguato i segni del tempo e le vicende di una vita, dice Roberto Veracini nella premessa a Esercizi di distanza (ETS Edizioni). Poesie in estrema sintesi, dunque. Un versificare, dolce e tremendo, che intende essere il resoconto dei respiri di un passaggio esistenziale. Il poeta di Volterra che di quella città (che incanta e a cui sono fortemente legato), è anima artistica e culturale, ci dona una poesia che pare lo schizzo di un pittore o la melodia di un battere e di un levare affine a quelle dure e incantevoli pietre che cingono quel luogo. E tra ricordi e confronti con la realtà, si misurano nei suoi versi le istanze, i dubbi, i crudi scenari, le sospese sensazioni, a volte gravi a volte ironiche, a volte collocate in una visione perduta o vissute nell’orlo del nulla. E quanta luminosa tenerezza vi è in questa poesia: quasi come riconoscere il sorriso aperto e accogliente, dietro la difesa ombrata data dalle mura cittadine, di questa terra, che è racchiusa nel colle, mentre già il cielo si confonde nel mare, che lontano si mostra come un’apertura nel mondo. E molto si mescola nelle scintille di vita che giungono fino all’infanzia in cui: «Forse è quel vino zuccherato/ che ci ha cambiato la vita,/ sulla fetta di pane/ un’ebbrezza insperata». 

Segmenti semplici quasi scoloriti, lontani dall’oggi in cui «La delusione è certa/ ma non si mette in conto./ Poi tutto diventa indifferente», nonostante gli amici, ma pure constatando che i vent’anni sono lontani come «una bellezza/ che si perde vivendo». Distanze, ecco questa è la misura esatta in cui il poeta si situa, restando a «guardarci in silenzio», coltivando una mancanza, contando i danni della vita, ma senza lamenti e approdi nichilistici, solo vivendo «Quella tristezza che a poco a poco/ cresce, guardando il passato, le foto,/ e poi diventa tenerezza e poi/ non si sa che». Senza pianti, senza emozioni troppo forti, senza bilanci finali, tipo: «E tu? Cos’hai fatto nella vita?». 

Ma poi a tutto c’è una risposta, che viene da un poeta lontano, di un’altra terra, di un’altra “educazione” poetica (Veracini, ha certo vicini taluni poeti conterranei: Luzi, Bigongiari, Carifi), come ci dice in una folgorante poesia, intitolata proprio Scotellaro: «“È fatto giorno” diceva Rocco,/ eppure era buio pesto./ Ma lui aveva la luce dentro,/ poteva bastare». La luce dentro, ecco ciò che conta, e che non vi sia la rete sotto il trapezio del poeta, mentre oscilla rapido, e così esposto alle più dure verità. E bastano quei quattro versi, seppure lo stesso Veracini sappia che: “Quattro versi non bastano/ a costruirsi un alibi. Si resta/ comunque esuli, così esposti/ nei nostri lividi». Esuli, ma estremi osservatori della propria e delle altrui esistenze. Mantenendo comunque uno sguardo compassionevole e di accoglienza verso l’altro. Ripensando necessariamente i vari passaggi che ci hanno attraversato o che abbiamo attraversato, mai sazi di osservare il corso della vita, anche con dolore, avvertendo che alcune cose non hanno riservato in noi lo spazio dovuto, e allora, solo allora «ti accorgerai di averla amata/ come nessuna, per tutta la vita come/ nessuna, te ne accorgerai tardi,/ come in tutta la vita». 

L’amore, gli amici, le speranze, i luoghi, la poesia; ecco quanto c’è e quanto non c’è nel nostro procedere. E si invoca che il «tempo con il tempo ti cambi», ma senza che cadano i sogni. Quanti suoi passaggi su e giù per le stradine ripide di Volterra, dalla Porta dell’Arco alla Piazza dei Priori, al Teatro Romano, alla scuola dove Veracini ha insegnato per tanti anni, e il giro delle mura, e il bastione mediceo alto dove c’è il carcere, e gli incontri con i mille conoscenti, anni e anni appeso a quelle pietre, a quella fortezza-città “separata” dal mondo, in cui vivere i propri canti, i propri versi. E gli incontri con i pittori, e gli scultori, perché l’arte è insita nel percorso poetico e critico di Veracini, e non parliamo solo dei classici (presenti nella locale Pinacoteca): Taddeo di Bartolo, Gera, Ghirlandaio, Signorelli, De Witte e dell’immenso Rosso Fiorentino, ma pure Mauro Staccioli il grande artista volterrano che ha lasciato sculture straordinarie e grandemente complesse attorno a Volterra di cui Veracini, ha seguito, interpretato e valorizzato ancor più con iniziative lodevoli, come l’evento recente Poeti per Mauro Staccioli, in cui alcuni scrittori hanno dedicato all’artista, morto nel 2018, i propri versi. 

Un legame quello di Veracini con la propria città che è un valore aggiunto rispetto al proprio sentimento poetico, e il mio abbraccio verso il chiaro scuro di questo luogo attraversato da tanta storia, come ricordava D’Annunzio nella sua poesia dedicata alla città, è anche l’attenzione verso Roberto Veracini, verso la sua poesia benedetta dal duro battere delle pietre e dal respiro dolce del viandante vento marino, mentre egli si guarda attorno nel volgere del tempo e come respirasse una santa protezione, dice: «E alla fine siamo rimasti qui/ a guardare le rondini, a giocare/ a Monopoli, niente più sogni. Eppure/ eravamo liberi e giovani».

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