Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Il ‘900 di Pasolini

Una grande mostra di oggetti e immagini chiude le celebrazioni per il centenario di Pasolini. Memorie, parole e fotografie per ricordare un grande intellettuale e un grande artista “perduto” inesorabilmente legato al suo tempo

Sì, ci manca Pier Paolo Pasolini. Con il suo coraggio e i suoi errori. Anche se non riesco a includere in quel noi tutta la grande folla che attraversa le sale romane del Palaexpo, per visitare l’ultima grande mostra che gli rende omaggio nel quadro delle celebrazioni del centenario della nascita. Una mostra che, partendo da una citazione pasoliniana, Tutto è sacro, passa in rassegna il controverso repertorio delle parole che ci ha lasciato in eredità e degli insulti che hanno marchiato la sua diversità, la rabbia con cui ha affidato al proprio corpo la sfida di giudizi e profezie da Cassandra. Non mi riconosco in quei tanti che in passato lo hanno lapidato e ora, per ridare L’Italia agli italiani, sono pronti all’applauso che a una gloria nazionale non si nega mai. E dubito persino di potermi anch’io includere in una platea di ammiratori di buona coscienza, assalito come sono dalla certezza di rappresentare per un peccato originale di appartenenza una generazione borghese che lo ha ammirato e frainteso, consumato insieme ad altre abitudini di consumo con un amore rassegnato e infedele.

Ecco, credo che il merito maggiore di questa nuova puntata di rivisitazione espositiva sia proprio nel porci di fronte il vuoto incolmabile a cui la sua morte prematura lo condanna e ci condanna, togliendo di mezzo quel corpo sacro ed oscuro con il quale occupava da capro espiatorio la scena. Separando con un colpo netto di rimpianti e rifiuti, buoni e cattivi, paradiso e inferno, amici e nemici. Ultimi della terra e borghesi grandi e piccoli. Annunciando una sconfitta nella quale è precipitato anche lui, ma disegnandoci un orizzonte di riscatto e resistenza per il quale continuare comunque a lottare.

Un vuoto calcolato dai curatori anche nella stesura del copione, con la scelta di eliminare l’ultima tappa, la più inflazionata dai mass media, la più divisiva, del percorso di vita di Pasolini, il suo brutale omicidio all’Idroscalo, evocata da un solo rimando: quei manifesti, che ne annunciavano con sdegno e cordoglio l’uscita di scena, imbrattati di scritte e di offese dai suoi tanti nemici di allora.

Giusto, sbagliato? Non so se il Pasolini corsaro avrebbe accettato la cautela di questa vistosa rimozione. Mentre sono certo che avrebbe apprezzato l’appendice riservata in un lungo corridoio fuori schema alla sua estetica di cineasta. Una sorta di magazzino dove sono accatastati come in un guardaroba i costumi che si fece disegnare e cucire da Danilo Donati, con stoffe e materiali poveri, per i suoi set. Appesi alle stampelle tutti quegli abiti di scena, raccontano meglio di quei pochi montati sui manichini, il rigore ascetico e artificioso che articolava e asciugava le sue visioni, travestiva di semplicità e di austera bellezza i coreuti e i protagonisti delle sue tragedie per il grande schermo.

Anche qui dunque il vuoto come cifra espressiva, attrezzatura mentale per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dei suoi messaggi.

A ribadire questo senso di vuoto, come implicito invito alla riflessione e alla ricerca di nuove bandiere di battaglia e d”impegno, è però soprattutto lo spettacolo della sala d’ingresso, una parata di tavoli di consultazione sui quali sono apparecchiati oltre un centinaio di libri che raccolgono l’immensa mole di scritti che Pasolini ha consegnato al futuro. Solo le edizioni più rare: gli originali della prime poesie di Casarsa in dialetto friulano sono protette in bacheca. Gli altri, quasi tutte prime uscite d’epoca, molte in veste economica, sono qui perché ognuno possa sfogliarli. E innanzitutto riconoscerli.

I dorsi scrostati dall’età e dall’uso, la carta ingiallita o macchiata ai bordi. Come quei titoli che abbiamo acquistato in libreria e conservato negli scaffali in corridoio o in salotto. Chissà quando li abbiamo ripresi in mano? Chissà dove sono finiti, relegati in seconda fila, sommersi da altri volumi, testi di altri autori più recenti? Chissà chi continua a comprarli sia pure in altra veste? E tra tanti cosa compra e perché?

Domande che misurano la nostra distanza e quella di Pasolini dall’allora e dall’oggi. Almeno in Italia. Sempre meno gli acquirenti di libri, e sempre più assorbiti da altre fonti d informazioni, vere e false, altri strumenti di connessione col mondo.

Come internet e i telefonini, il frastuono dei social e l’io c’ero dei selfie. Una rivoluzione che Pasolini non ha fatto in tempo a vedere e che probabilmente avrebbe cambiato anche lui, come ha cambiato quel terzo mondo che ci indicava come ultima sponda di salvezza. Ci manca Pasolini, ma per non tradirlo davvero dobbiamo riconsegnarlo al suo tempo. E alla sua biografia di figlio di un Novecento che non aveva ancora festeggiato il suicidio del comunismo e di ogni altra narrazione di riscatto sociale, consegnando le leve della gestione politica al potere del capitalismo finanziario. A quegli stralci di racconti di suo pugno che scorrono su un telone all’ingresso. E ai quali dobbiamo ricollegare tutti i capitoli di questa mostra a bassa temperatura.

Quel sogno di Friuli contadino che lo ha accolto alla nascita e poi lo ha espulso in esilio con l’accusa di atti osceni in pubblico, ma al quale continuava a fare ritorno. E prima ancora l’altro sogno di quel grembo materno dove sguazzava felice prima del parto: Pasolini lo evoca in uno dei suoi scritti corsari più contestati, per smascherare la pratica legalizzata dell’aborto come un ipocrito rifugio di rimozione borghese al non detto dell’amore carnale, del coito e delle pulsioni omosessuali. Tra la valanga di critiche che quel suo intervento scatenò su tutti i fronti e che la mostra ha raccolto nel siparietto riservato al Dileggio, i curatori hanno incluso, per un discutibile sussulto di equidistanza, anche una pacata e ironica replica di Umberto Eco, che smontava il malriuscito incastro delle sue argomentazioni.

Un errore di regia difficile da perdonare se si confronta questo motivato rilievo di un intellettuale di sinistra che ragiona senza spocchia con gli sguaiati sberleffi del fronte opposto e la vergognosa gogna di processi, di censure e di accuse che cercarono di sbarrare il passo ai suoi romanzi e ai suoi film. Un linciaggio di rozze allusioni che mi sembra riassunto con grande efficacia lungo il percorso in una foto pubblicata dal Borghese nel 1964. Ritrae Pasolini accanto a un cesso pubblico di Roma tappezzato di manifesti che invitano a votare Il partito comunista in una tornata elettorale in cui anche lui, nonostante la sua posizione di “scomodo” e scandaloso compagno, ben accolto nei salotti di sinistra, ma radiato e mai riammesso ufficialmente nei ranghi, era sceso in campo.

La mostra non segue uno sviluppo lineare, ma procede a girotondo per sbalzi tematici nelle sei sale ai lati dell’atrio a cui ci suggerisce di tornare, per ri-ancorare quel che vediamo e leggiamo alle frasi di quell’autobiografia che lega e anticipa ogni sezione. Il suo arrivo a Roma nel 1950, il primo povero alloggio e poi le altre case in periferia, la scoperta del popolo schietto delle borgate con cui fraternizza e poi lo stupore per una città più smagliata e seducente di quanto pensasse. Anni di lavori precari. Di fame e miseria. La madre che per aiutarlo deve far la domestica in casa altrui. La felicità, l’arte di accontentarsi, evadere con una battutaccia un sorriso, che coglie e impara dai volti dei ragazzi di vita con cui nuota e discute sul greto del Tevere, e non ritrova, se non in una versione purgata e impallidita, nei salotti buoni nei quali la sua cultura comincia a trovare udienza e sostegno. A procurargli occasioni di lavoro e di agio crescente dei quali approfitta, per una scalata sociale, scandita da traslochi in quartieri più anonimi di piccola e media borghesia. Fino a quella ultima casa da benestanti all’Eur, affacciata su un nulla che rimanda decoro. A quelle ville al mare di amici, dove anche lui sembra ritrovare se non la pace il sorriso.

Non certo la compostezza cui in pubblico Pasolini sembra sempre vincolare il suo corpo. Impettito in giacca e cravatta, elegante e controllato anche quando posa in costume da bagno o qualcuno lo riprende in calzoncini e maglietta in qualche campetto di calcio. Una maschera d’autocontrollo confermata dal corredo di fotografie che accompagna questa fase e altre fasi successive della sua storia. Esposte, almeno qui, senza alcuna enfasi: tutte o quasi in piccolo formato, scatti da selezionare prima della stampa come usavano i laboratori fotografici di allora. In scala ridotta anche una foto che Pasolini si fece scattare nella Torre di Chia dal suo amico e complice Dino Pedriali, in posa nudo sul letto, a simulare lo sguardo indiscreto e rubato di un paparazzo.

Balza agli occhi il contrasto con un altro bianco e nero, invece regolarmente ingrandito, che lo ritrae al volante di una Giulietta, negli anni in cui è approdato al successo. Spavaldo come a imitare il Gassman del Sorpasso. Sembra una caduta di stile, di quelle che rinfacciava ai borghesi arricchiti. Forse è solo un ricordo rassicurante che voleva consegnare come ricompensa alla madre: grazie a te ce l’ho fatta, ora puoi stare tranquilla. Forse una confessione dell’altro io rapace, che scatenava nei suoi vagabondaggi notturni.

Ingranditi, con una sottolineatura che però è effetto esplicito e più motivato di regia, anche i bianco-e-nero che costellano il capitolo più intenso e suggestivo di questa rivisitazione e, meglio giustificano il titolo Tutto è sacro con cui si presenta. Quello dedicato al corpo femminile e al rapporto con le donne che più hanno avuto peso nella sua vita. La mamma anzitutto, che lo ha sempre tenuto in braccio e per mano e che lui ha immortalato come Madonna nella rivisitazione del Vangelo di Matteo. Silvana Mangano con la sua distaccata e misteriosa bellezza, che ha scelto come madre di Edipo e moglie malmaritata in Teorema, ma che non è mai riuscito a raggiungere per essere rassicurato dal suo giudizio, come confessa in una lettera accanto. L’arroganza sboccata e complice di Laura Betti, la sua amica più trasgressiva. E infine Maria Callas, la diva dell’opera scelta come Medea, che si era perdutamente innamorata di lui e lui ha ricambiato in modo più distaccato. Forse solo qualche bacio, come quello immortalato da un fotografo occasionale, che fece scandalo e richiamo di copertina sui settimanali da pettegolezzi di mezzo mondo. Un tuffo nella sacralità e nell’enigma dell’amore e della sensibilità al femminile che più di ogni altro cimelio d’epoca ci avvicina alla sua anima di poeta.

Agli echi che ancora oggi le sue parole e il suo ruvido, coinvolgente modo di raccontare ci ridestano dentro. Anche attraverso questa mostra, a volte sfocata.

Mostra che proseguirà in altre due puntate differite in altre sedi e date, frutto di un inedito patto di collaborazione con il Maxxi e palazzo Barberini siglato dal nuovo presidente del Palaexpo Marco Delogu. Per esplorare il rapporto di Pasolini con l’arte antica e degli artisti del contemporaneo con la sua figura e i suoi messaggi.


Le fotografie sono tratte dalla mostra “Tutto è santo” al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Facebooktwitterlinkedin