Andrea Carraro
A proposito della "Promessa"

La voce del pastore

Il Meridione della prima metà del secolo, la guerra, la povertà, l'amore e la dignità: il romanzo di Gianlivio Fasciano è tutto da leggere. Inseguendo una lingua di grande forza e fantasia che intercetta perfettamente la realtà storica

Oggi parliamo di un romanzo – La promessa di Gianlivio Fasciano, Iod edizioni, 264 pagine, 15 Euro – che il critico Filippo La Porta ha definito “romanzo epico-storico vibrante come una ballata popolare, potente come una narrazione arcaica del Sud, in cui il lettore attuale ritrova una verità dimenticata…”. Dice altre cose interessanti il critico, – si possono leggere sul sito della casa editrice, e vi consiglio di farlo – ma adesso vogliamo provare a dirne qualcuna noi… Partendo dall’inizio, in un certo senso, dal primo approccio con l’oggetto libro, come ci è capitato di fare altre volte, per gioco e anche per tentare una formula critica alternativa.

Dunque, abbiamo in mano il volume de La promessa, che abbiamo appena scartato dal pacchetto, recapitato da un ragazzo affannato e impaziente di Amazon. Lo sfogliamo, ne apprezziamo la fattura editoriale, il segno grafico vagamente rétro, – editrice napoletana Iod, collana Cronisti scalzi, dedicata alla memoria di Giancarlo Siani – copertina colore seppia, effetto dagherrotipo – con la foto incorniciata di una coppia di sposi sul marmo di un comò, assieme ad altre foto familiari in cornici argentate di varie dimensioni, … sotto al titolo, La promessa, e alcuni ghirigori, un sottotitolo esplicativo, “Un pastore, la guerra, un amore”.

E cominciamo a leggere, – subito empatizzando con il personaggio Romolo di Meo, colui che si sta raccontando, con la sua lingua espressiva e musicale, che si finge incolta, ma è molto concreta, sapete, screziata di dialetto locale, un po’ ciociaro un po’ abruzzese (abbruciava, pacienza, ci dissi, propritamente, nonzì, addavera addavera ecc.), fa pensare alla lingua burina di Per grazia ricevuta, con Manfredi, ve lo ricordate, oppure a La ciociara di De Sica, dal romanzo di Moravia. Il giovane si rivolge ai lettori con un voi confidenziale, amichevole, colloquiale, ma senza ruffianerie e ammiccamenti, cominciando a presentare se stesso, i suoi familiari (padre, madre, sorelle), il paese di Mastrogiovanni, dove vive e ha sempre vissuto, il borgo dirupato di quattro case che nessuno conosce, che non figura neppure sulla carta geografica: “Sopra Caserta, sotto la Ciociaria, verso l’Abruzzo, dentro il Molise”; quasi un’intenzione di paese, più che un paese vero.

È fiero del suo lavoro di pastore, Romolo, e poi è innamorato follemente di Giovannina, una ragazza del paese che presto sposerà, più istruita di lui (gli legge Don Chisciotte, quando lui rientra la sera dai pascoli, che non è ancora sceso dalla mula) – siamo negli anni ‘30, in un sud povero, sperduto fra le montagne – un ragazzo con il mito del padre Simone, uomo giusto e generoso, a sua volta pastore, reduce dalla prima guerra mondiale con una ferita al braccio…

Il protagonista narrante sembra vivere in armonia con la natura, con i suoi simili, con gli animali (le pecore che porta al pascolo, il suo cane, gli altri animali che si aggirano bradi per quelle valli, i cavalli, le volpi, i lupi, gli orsi ecc.), Ma l’idillio (raccontato senza sentimentalismi o immagini oleografiche, con senso vivo del paesaggio restituito in brevi pennellate) finisce presto, quando parte per il servizio di leva un attimo prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a dorso di mulo, fino alla stazione di Cassino e poi in treno, su, verso il Nord…

Romolo si trova acquartierato a Trieste, promosso quasi subito a tiratore scelto (ha imparato a sparare andando a caccia con il padre), e poi marconista. Ha tempo anche di ammirare la città, assieme a qualche altro milite in libera uscita, crocevia di razze, di popoli, il grande porto, il mare che non aveva mai visto, che gli fa una grande e duratura impressione, così immenso e mutevole, gli pare che non stia mai fermo (come in una famosa canzone di Paolo Conte). “Cara Giovannina, – scrive alla moglie, nel suo italiano stentato, – il mare fa gli scherzi. Si muove senza spostarsi, ma io vado in montagna perché sono alpino, e vado sulle cime e se trovo gli urzacchi, so come fare.”  

La guerra, dunque, la Seconda guerra mondiale (mentre suo padre aveva fatto eroicamente la Prima), una guerra dalla quale, ci dice Fasciano, – si può uscire vivi, ma non salvi.

Dopo l’Armistizio dell’8 settembre, come tanti, per lui c’è la diserzione, quasi involontaria, sbandata, erratica, con il rocambolesco cambio d’identità a Napoli, la clandestinità e le fughe, il ritorno inglorioso, con un generalizzato senso di colpa addosso, in un paese – Castrogiovanni, – come tanti altri, distrutto dai bombardamenti, saccheggiato, avvilito dalle perdite, dai lutti, percorso dai reduci menomati, “scimuniti”, che si aggirano fra le rovine…  – lei, Giovannina, ha perso una gamba durante un bombardamento, e adesso ne ha una di legno, ma non per questo lui ha smesso di amarla, quella protesi che i ragazzini cenciosi le vengono a toccare; suo padre, Tata, è morto in guerra, sua madre, Tatella, è sempre più chiusa nelle sue ossessioni di colpa, nella sua cupa depressione. Eppure, dopo tanto orrore tanti morti e tante brutture che ha dovuto vedere, il suo sguardo (lo sguardo di Romolo), conserva quello speciale accento di innocenza, di purezza, che avevamo trovato all’inizio, quando faceva il pastore, – lo troviamo anche nelle commoventi pagine finali, che raccontano il suo ultimo “dono” alla vecchia madre diabetica terminale in sedia a rotelle, e che paiono aprirsi a una prospettiva di rinascita, e di consolazione. Forse è questo il segreto del romanzo, dicevamo, la voce, che non ha cedimenti, cadute, una voce che non è quella dello scrittore, Gianlivio Fasciano, si badi, che è un avvocato di Campobasso, esperto di diritto del lavoro in ambito industriale, autore di favole per bambini, di testi teatrali. L’autore ha esperienza diretta di ciò che racconta, è davvero vissuto a Mastrogiovanni, ha davvero fatto il pastore, solo che, come ci avverte in una nota in corsivo, “Me ne sono vergognato del letame spalato e del dialetto moscio, che a Mastrogiovanni non ci sono mai voluto tornare da quando ho deciso che sarei dovuto diventare altro…”. Dunque, una voce inventata dallo scrittore per raccontare questa storia di formazione, una voce popolare espressiva e viva, a cui credi, a cui ti affezioni, affondata nella tradizione, che ti dispiace di lasciare, dopo la morte serena, finalmente pacificata, della madre Tatella, il funerale nella chiesa di un paese vicino affollata di gente, con Giovannina e la figlia Delia, e il breve ritorno nella vecchia casa avita di Mastrogiovanni, per un ultimo saluto. Un paesano gli chiede se tornerà a fare il pastore. E così Romolo (e Gianlivio) chiudono la narrazione: “Mi voltai, scossi la testa. Poi mi chiusi in macchina e andai via”.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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