Claudio Pasi
A proposito di "Animadaria"

Poesia del giardino

Ritorna libro che Gianfranco Maretti Tregiardini dedicò alla «giardineria», una attività che coniuga la natura alle parole. Il rigore botanico si mescola a una lenta e profonda capacità di riflettere sulle cose della vita

Chi nei decenni appena trascorsi si fosse trovato ad assistere a qualche evento letterario o artistico  presentazioni di libri o vernici di mostre – tra Emilia, Lombardia orientale e basso Veneto, avrà magari avuto occasione di imbattersi, vista la sua assidua e coinvolta partecipazione a tali incontri, nella figura svettante e allampanata di Gianfranco Maretti, indimenticabile non foss’altro che per certe mises ineguagliate e pittoresche, ostentanti giubbe damascate e maniche a sbuffo, berretti kufi e sciarpe arabeggianti. Molto spesso poi accadeva che l’eccentrico e segaligno donchisciotte intervenisse nei dibattiti con quella sua pirotecnica facondia e quel suo vorticare del corpo e delle braccia, come a ribadire, al di là della specifica occorrenza e delle notazioni su questo o quell’autore, un’assoluta dedizione all’arte e alla poesia per se stesse. 

Gianfranco Maretti (Felonica, 1939-2017) è stato infatti poeta originalissimo, estroso favolista, raffinato cultore della poesia latina, oltre che insegnante e preside negli istituti superiori. Ma a tutti questi molteplici interessi egli ha affiancato, nel corso degli anni, l’esercizio appassionato della «giardineria», come lui definiva tale attività, rimarcandone le implicazioni spirituali e distinguendola quindi dal semplice hobby del giardinaggio. Attività questa che ha praticato in un podere ricevuto in eredità dal padre contadino, situato presso il corso del Po e suddiviso in tre piccoli appezzamenti, da lui denominati Viridiarium, Rosetum e Violarium: un autentico luogo di viscerale radicamento e di sentimentale elezione, tanto che ebbe poi, per decreto presidenziale, il permesso di aggiungere al proprio cognome quello di Tregiardini.     

Il racconto o piuttosto, per usare le parole dell’autore, la «rapsodia dei Tregiardini», intitolata Animadaria. Vita e umori dei tregiardini è stata di recente ristampata in elegante veste dall’editore rodigino Il Ponte del Sale, a notevole distanza ormai dalla prima edizione, datata 1996, allorquando Maretti, non ancora Tregiardini, intese dare forma di libro agli svariati fogli di carta pentagrammata che anno dopo anno era venuto vergando a penna e inchiostro con quella sua grafia rotonda e volitiva. Ne era sortita una descrizione trasognata e minuziosa del mondo vegetale, un fitto repertorio botanico che era insieme il diario di intime e sospese emozioni, senza troppi riguardi a costrizioni di genere e, a tratti, liberamente affine al prosimetro o al poema in prosa.

Il libro prende avvio nella notte di San Lorenzo, quando appunto incomincia, secondo Maretti, «l’anno dei giardinieri», e il ciclo alla fine si conclude in un successivo 10 agosto, dopo aver attraversato le opere e i giorni di un lunario esiodeo, seguitando di mese in mese i tempi e le fasi della vegetazione e il ritmo dei lavori – vangare, seminare, trapiantare, mondare, zappare, potare, sfalciare, raccogliere. Il poeta accarezza arbusti e fiori, anzi diviene parte stessa di essi, sospinto nel vortice misterioso della natura, immerso nel flusso ininterrotto delle stagioni, mentre cammina scalzo in mezzo all’erba con «i piedi fatti di terra nera» (p. 24), accoglie la «luce verde del primo mattino» (p. 37), respira «l’odore dei fieni seccati» (p. 45), ascolta «una musica di pioggia» (p. 51), osserva le sequenze della fioritura, contempla l’incanto della neve accumulata sui rami o le prime nebbie d’autunno che avvolgono gli alberi spogli. Trascinato da questo élan vital, egli appare come invaso da una sorta di sentimento panico, senza tuttavia consegnarsi a tentazioni o a compiacimenti estetizzanti, ma gioiosamente consapevole di contribuire in prima persona all’arcano processo della generazione, perché il poeta, come accenna Pascoli nel Fanciullino, è davvero simile a «un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori»; è colui, continua Pascoli, che «impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare». E qui, entro i confini del proprio giardino, Maretti sembra davvero incarnare l’archetipo del puer senex, attonito dinanzi al miracolo del mondo e in grado forse di carpirne il più recondito segreto, se, come egli afferma, «ogni vero giardiniere è un iniziato» (p. 82).

La meraviglia del poeta-fanciullo, del poeta-giardiniere, rapito dalla vitalità della natura, viene annunciata, fin dalla pagina d’esordio, mediante la parola miracolo, anzi, miraculum, in latino e senza corsivo, cioè il miraculum dei fiori in boccio con i loro colori tenui o sgargianti, del fruscio del fogliame, dei frutti maturi. Parola questa che ricompare molte altre volte nel prosieguo del libro, insieme a termini quali festa, tripudio, felicitas – anch’essa senza corsivo –, rigoglio, amore. Perché questo accostarsi alla mutevole esistenza vegetale assume ovunque il carattere di un vero e proprio innamoramento, con una morbida sensualità che si manifesta nella rapidità delle immagini e dei pensieri e nel loro trasfondersi gli uni negli altri, tanto che la scrittura fatica ad inseguirne il movimento e il senso, ed appare sovente debordante, cangiante, talora incontenibile. La sintassi si sgrana allora in un pulviscolo di frasi nominali, di frammenti paratattici, di geometriche iterazioni: «Tutta la meraviglia è della luna, sorta incontro ai giardini rotonda grandissima e rossa grandissima e rotonda rotonda rossa e grandissima grandissima rossa e rotonda» (p. 43). Il lessico si dispiega in neologismi inattesi, in fantasiosi accostamenti («giornata trombettiera», p. 17; «luna saracina», p. 19), si arricchisce di strambe concatenazioni di vocaboli composti («piaciutagente», «lafestagrande», «lamoredombralunare», la stessa «animadaria» del titolo, pp. 25-26). O si sofferma su calembour ossessivi e insistiti giochi di parole («Oggi è l’otto dell’otto. / E non annotta. / L’otto dell’otto. / E non annotta», e avanti a seguire una trentina di volte, pp. 85-86). Ed ancora rassegne di nomi e di aggettivi alterati, in special modo accrescitivi, che producono l’effetto di una deformazione espressionistica: «pescone», «viluppone», «abbraccione», a proposito del quale l’autore ritiene necessario spiegare: «Viene chiamato ‘abbraccione’ ogni cespuglio che sia vasto come il tondo di due braccia che abbracciano» (p. 80).

Questo perché, egli enuncia, «Mi piace gonfiare e sgonfiare le parole» (p. 26), così da creare con incosciente coraggio uno stile fatto di stralunate analogie, ora dilatato ora franto, all’apparenza incontrollato e mosso da una vibrante irruenza sorgiva. Quasi una sorta di corrente di coscienza dunque, di sognante scrittura automatica, di poesia ininterrotta che, per sensibilità nei confronti della natura e per disinvoltura verbale, potremmo accostare a certi passaggi di Corrado Govoni, nato d’altronde non tanto lontano dai tregiardini, nella pianura ferrarese ugualmente solcata dal grande fiume. Sfogliando qua e là Inaugurazione della primavera (1915) leggiamo infatti: «È un immenso fruscio di pioggia / che sgocciola lenta lenta / lungo i tremuli fili d’erba, / dalle ciglia, rosee dei fiori, / dalle labbra bianche dei fiori», oppure «Vaste chiazze di margherite / come una grandine di fiori / una spruzzaglia di calcina / delle pennellate di biacca; / vaste chiazze abbaglianti di ranuncoli / come macchie di giallo di cadmio verniciato, / ed un odore d’alberi bagnati tutt’intorno».

Anche in Maretti compaiono simili lunghi vorticosi elenchi botanici: «Nella loro casa d’inverno gerani, azalee, garofani, violacciocche, camelia, fucsia e primule stanno bene» (p. 35); e più oltre: «Si bagnano profondamente i fiori di gelsomino d’ibisco, di kerria d’oenothera di geranio d’oleandro di rosa d’aspidistria di girasole d’erba medica di radicchio di solidago di ginestrino» (p. 55). Elementi di un intero erbario designati con il loro nome comune o con quello scientifico: «Quest’anno chimonanthus fragrans, jasminum nudiflorum, e forsythia nudiflora fioriscono in sequenza» (p. 74). E può scegliere magari il latino per dar conto dei lavori eseguiti in giardino, come ad esempio la cura dei rosai: «Una roseos et putamus ramos et amputamus et tondemus in Roseto. Rosearum arborum proceros atque promissos ramos una implicitos saligneis religamus laqueis» (p. 44). La spontanea mescidanza linguistica si completa infine con il ricorso al dialetto nativo, quale omaggio, o piuttosto identificazione con il padre Artiade («Meopà è me», p. 98), dedicatario del libro. Ecco allora espressioni desunte dall’antico idioma rurale («dulsùra», «scafsèra», «mansinèl», «fumàna», «mirasòl») e ricordi di proverbi popolari, come «La pióa sutíla  l’ingàna ’l vilàn» (p. 73) o «In Avríl a ’buta anch’ ’l mànach dal badíl» (p. 76): locuzioni vernacolari alle quali Maretti appone l’enigmatica osservazione secondo la quale «La lingua ci veste, il dialetto ci sveste» (p. 19).

Ne risulta in tal modo un testo estremamente dinamico e imprevedibile, che fonde estemporanee citazioni poetiche (Tibullo, Penna, Zanzotto) con dotti riferimenti musicali (Bach, Pergolesi, Mozart, Rossini) non di rado assimilati dall’autore all’ambiente vegetale o alla propria stessa esistenza, perché, egli dichiara, «Sono pieno di musica» (p. 65). E non mancano, per concludere la variegata panoramica, fiabe bizzarre e incongruenti o spunti al limite del paradosso, con alberi e arbusti immaginari e fiori che dialogano tra di loro. Tutto il racconto si svolge dentro un’atmosfera lieve, aerea appunto, e permeata da un’incontaminata freschezza, perché a Maretti non interessano le regole letterarie o i canoni formali, ma egli desidera soltanto abbandonarsi al rapinoso piacere della scrittura, a quel menzionato miraculum della poesia allo stato puro, che coincide con la sua spontanea e quasi infantile gioia di vivere. «È quindi un insegnamento morale e civile quello che alla fine ci viene da questo libro, dai suoi inviti e abbracci, dalle sue promesse mantenute», come già aveva fatto notare Marco Munaro in margine alla prima edizione di Animadaria.

A suo modo dunque Gianfranco Maretti Tregiardini sembra aver voluto raccogliere l’invito di Virgilio (non casualmente «mantoani per patrïa ambedui»), quando, nel quarto delle Georgiche, si scusava di non poter trattare dei giardini per motivi di spazio, affidandone ad altri il compito. Atque aliis post me memoranda relinquo, canta il suo verso, che Maretti così restituisce: «e lascio da celebrare ad altri queste cose, dopo di me» (cfr. Il canto d’api. Georgiche libro quarto, trad. di Gianfranco Maretti Tregiardini e Marco Munaro, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2012). A queste cose memorabili egli ha voluto rendere onore e dichiarare amore, a un giardino che è insieme proprietà personale e anelito universale, vero parádeisos, luogo di felicità vera. Ma Maretti è un poeta e, in quanto tale, sa bene che «La felicità non è uno stato, ma un linguaggio» (p. 100). Con questa frase si conclude il libro e proprio qui sta forse la sua più profonda ragione.


Accanto al titolo, “Giardino a Giverny” di Claude Monet

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