Giuseppe Grattacaso
A proposito di “Camera sul vuoto"

Versi sul vuoto

La nuova raccolta di poesie di Bruno Galluccio disegna un percorso alla ricerca dell'origine della vita: una ricerca senza fine perché ha la consapevolezza di non avere senso. Ma proprio in questa ricerca c'è il valore dell'esistenza

La “camera sul vuoto” che dà il titolo alla più recente, preziosa raccolta di poesie di Bruno Galluccio, è quella dalla quale il genere umano guarda verso il mondo. A chi si affaccia “sul vuoto”, il mondo si manifesta con le sue rappresentazioni più vicine e familiari, delle quali comunque spesso sfugge il senso, e con quelle remote e solo molto parzialmente esplorabili. La vista che si scorge dalla finestra lascia senza fiato. Intorno è il segreto della vita che si compone in minime esistenze, in pulsanti particelle, e nell’immensità di spazio e di tempo senza fine e senza direzione, nell’apparente fissità del cielo e delle presenze che lo abitano, in effetti in inesauribile movimento, nel vorticante fuggire di ogni cosa, nella perpetua instabilità delle galassie. Guardare da questa camera è in fondo rimanere sospesi sull’abisso. Guardare è non conoscere e quindi domandare.

La poesia di Galluccio, a partire da Verticali, il primo libro, edito nel 2009, e con forza ancora maggiore in Camera sul vuoto (Einaudi, € 12), continuamente si interroga, e di conseguenza pone quesiti ed esprime dubbi, proprio nel momento in cui ci sospende sull’orlo del precipizio, dove in effetti già siamo, perlopiù però indugiandovi con movenze testardamente inconsapevoli. Il poeta, laureato in fisica e con interessi nel campo della cosmologia, che in questo libro si mostrano in maniera evidente, lascia sapientemente convergere il linguaggio della poesia, per statuto ambiguo e sfuggente, verso quello dell’astrofisica e della fisica quantistica, che per necessità agisce anch’esso su un terreno accidentato e fortemente variabile, finendo per essere ugualmente velato ed enigmatico, pur avanzando da basi e conoscenze lucidamente scientifiche. Insomma, nella poesia di Bruno Galluccio, poesia e scienza sono due facce dello stesso linguaggio, interscambiabili e interagenti.

Quali contenuti rappresenti e verso quale obiettivo manovri la poesia di Camera sul vuoto, è chiaro fin dai primi versi del libro: “un punto che non ha posizione / un inizio che non è un inizio / perché non esisteva un prima // interno di sovrapposizioni che non ha esterno / concentrazione infinita di densità e temperatura”. È il principio di ogni cosa, la spettacolare e imprevedibile nascita dello spazio-tempo universale, dei mondi e della vita, ma anche l’inizio di un’assenza, della mancanza di un centro e di una confortante stabilità. Tutto del resto prende l’avvio da “un punto che non ha posizione”, perché non può esserci nessuna posizione nel nulla che precede quel punto, e tutto ha inizio senza iniziare, perché non può darsi nessun momento di avvio a partire dall’assenza di ogni cosa, anche del tempo. E tutto, da quel momento, è irrimediabilmente interno, mancando uno spazio altro che non sia universo.

Basterebbe questa condizione di partenza per rendere traballante e insicura, ma non per forza di cose inospitale, la camera nella quale abitiamo. Del resto, il luogo che ci ospita, così periferico in un universo in qualche modo interamente posto nella periferia di nessun centro, “potrebbe essere nato dal nulla / per una fluttuazione quantistica del vuoto cosmico”. Si tratta di “un evento casuale e improbabile”, di un “disequilibrio fluttuante di un istante”, tale da generare una lunga serie di “combinazioni accidentali”.

Se il racconto della prima vita dell’universo, o delle congetture e delle visioni con cui la scienza ora raffigura l’evento, si sviluppa in un linguaggio piano e quasi narrativo, quando l’attenzione del poeta si trasferisce sulla realtà esistenziale che attraversiamo e su vicende immediatamente conoscibili, quando insomma le parole vorrebbero raccontare una realtà più concretamente tangibile, il mistero si infittisce e la poesia si scopre in un mondo altrettanto sospeso e fluttuante, il linguaggio precipita in turbamenti e si scompone. Di conseguenza la lingua partecipa al lettore il proprio smarrimento: “la capacità di descriverci di fare la mappa / delle nostre regioni mentali si inceppa / non si racconta che per fermate accidentali / e rimane un incaglio una fessura // le regole grammaticali distrutte nell’incendio / lo sforzo mentale e il disordine ridotto in polvere / il grande sospiro che sempre di più include / regioni disparate e frontiere”.

La lingua è inadatta a spiegare quanto già accaduto, ancora di più ad offrire l’anticipazione di un possibile futuro: come avviene per la fisica, può solo tentare strane combinazioni per mettere insieme quello che fino a ieri ignoravamo, può spingersi ad attraversare un confine, del resto sempre sfuggente e impalpabile, che potrebbe darsi nemmeno esista. La vita del resto è inadatta a comprendere il mistero, lo guarda manifestarsi come su uno schermo, proiezione che presto scompare e che lascia un senso di sgomento.

La poesia di Galluccio è alla ricerca di un sentiero che conduca in una zona rassicurante e illuminata, consapevole che, se un sentiero esiste, è probabile non porti da nessuna parte, e che il nostro essere al mondo è spesso condizionato dal buio, è segnato dalla presenza di “vetri che ci separano dalle cose”: viviamo “nell’inverno dei tempi in quella zona scura / in cui a volte si aprono sorrisi e confessioni / e si tenta una vertigine del mondo”.

Nell’affrontare il mistero, la scienza apre varchi che offrono nuove conoscenze e dunque lasciano intravvedere nuovi territori, che finiscono per dilatare il conoscibile e dunque per infittire il mistero: “L’algebra è ferma e gocciola teoremi / le varianti ai documenti si sono perse / nuoto nel semibuio della biblioteca / cercando orologi cenni cartografie / cercando tutto quanto non ho compreso”. Per noi che “avevamo aspirato a diventare angeli”, resta il peso di essere soli nel cosmo, l’affanno di essere uomini, l’angoscia di non comprendere, l’impossibilità di apprendere qualcosa da chi ha vissuto prima di noi e che ora non c’è più (“potrebbero arrivare a protestare i morti // sanno molte cose di noi che non ammettiamo / conoscono sentenze”). E se una sentenza può essere espressa anche dai vivi, Galluccio la riassume in un verso: “imbrogliata è la nostra sopravvivenza”.


La foto accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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