Roberto Cavallini
A proposito di “macchine visuali”

L’occhio e lo spazio

Incontro tra un fotografo e un architetto alla ricerca del significato del “punto di vista”. Parla Alessandro Panzetti: «Una figura piana, se proiettata nello spazio scomponendo i suoi elementi grafici su più piani, è in grado di generare una infinità di forme tridimensionali»

Era d’obbligo, tanti anni fa, per chi si approcciava alla fotografia, la lettura del libricino di Federico Arborio Mella dal titolo: Sulla Strada della fotografia, i cui primi capitoli riguardavano il Brunelleschi e la prospettiva, Leon Battista Alberti, il prospettografo di Leonardo e quello di Dürer (anche se la fotografia nasce ufficialmente nel 1839, la macchina fotografica non è null’altro che l’evoluzione tecnologica del prospettografo e anche dello zoom, provate a spostare avanti e indietro il mirino) e gli studi anamorfici di Hans Holbein il giovane. L’anamorfosi non è altro che un’immagine fortemente distorta che acquista la forma “realistica” solo quando l’osservatore si dispone in una particolare posizione molto inclinata rispetto al piano di esposizione dell’anamorfosi stessa.

Tutto parte da lì, dal punto di vista.

Chi stabilisce il punto di vista è un demiurgo che impone cosa vedere e come vederlo, la relazione tra gli elementi che compongono l’immagine in termini di disposizione spaziale e di rapporto “gestaltico” tra figura e sfondo.

Alessandro Panzetti, architetto, si è occupato nel corso degli anni di teatro, di musica e di immagine in movimento, realizzando numerosi film di animazione che hanno ricevuto premi a livello internazionale; lo incontriamo nel suo studio dove, negli ampi spazi di un vecchio casale dell’agro romano ai margini della città, è allestita la mostra permanente delle sue “macchine visuali”.

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Come definisci queste tue “macchine visuali”?

Le chiamo “Installazioni Anamorfiche”, perché forniscono tutte una doppia possibilità di lettura: sono fruibili liberamente come qualsiasi installazione tridimensionale ma in tutte c’è sempre una condizione di fruizione visiva, come ad esempio un punto di vista privilegiato, che permette la comprensione dell’opera anche dal punto di vista compositivo (forma e rapporto spaziale tra gli elementi) come appunto accade nelle anamorfosi.

Quando hai cominciato la tua ricerca sui punti di vista obbligati, fino a spingerti sul terreno dell’inganno dell’occhio, come nel caso di un pannello opportunamente progettato per l’Anamorfosi tetraprospettica?

Sin da piccolo sono stato un attento osservatore dei fenomeni legati alla percezione visiva e alla riproduzione degli oggetti, delle forme, perché mi è sempre piaciuto disegnare dal vero e in modo realistico, direi fotografico, nelle intenzioni. Ovviamente da studente d’architettura ho affinato tecniche e conoscenze. Applicazioni di Geometria Descrittiva è stata la mia materia preferita, ho definitivamente imparato a fare rappresentazioni prospettiche anche complesse allenando in modo determinante quella capacità, già acquisita nel tempo, di saper immaginare mentalmente forme nello spazio. Il limite era il foglio, la sua dimensione e il suo rapporto spaziale col punto di vista: distanza e ortogonalità obbligata con la “direzione dello sguardo”. Per poter girare lo sguardo, cioè fare quello che in gergo cinematografico si chiama “panoramica”, bisognava fare diverse prospettive accostate tra loro con medesimo punto di vista ma non appartenenti allo stesso piano per l’obbligo di ortogonalità con la direzione dello sguardo per ognuna diversa. L’Anamorfosi Tetraprospettica è costituita dall’assemblaggio di quattro prospettive a quadro inclinato aventi il punto d’osservazione coincidente. Ne deriva una figura tridimensionale cava, costruita concettualmente su un semiottaedro il cui vertice, coincidente con i quattro vertici dei rispettivi coni visivi con angolo al vertice di 60°, è il punto d’osservazione, capace di unire visivamente le quattro prospettive in una sola fruibile in modo panoramico senza aberrazioni con angolo di campo complessivo di 150°. Questa esperienza materiale e concettuale datata 1972, mi ha permesso di scoprire quanto l’oggetto finale acquisisca un proprio valore estetico autonomo e quanto questo dipenda anche dal soggetto spaziale rappresentato. È stato il mio primo lavoro in cui l’applicazione della geometria cessava d’avere la funzione subordinata alla descrizione di uno spazio ma, al contrario, la descrizione geometrica di uno spazio fittizio diventava essa stessa l’oggetto da mostrare.

Alcune tue “Installazioni Anamorfiche” ovviamente strutture complesse e tridimensionali, trovano la loro soluzione in una visione, dove ogni tridimensionalità si riduce alla percezione di una immagine euclidea bidimensionale.

Si, questo succede in modo evidente nella “Anamorfosi 01”: chi trova il punto di vista privilegiato e osserva la struttura tridimensionale dinamica attraverso lo specchio, nota che tutto si allinea formando una figura geometrica bidimensionale bloccata. Emerge così il bipolarismo insito nell’installazione tra staticità e dinamicità ma anche quello tra bidimensionalità e tridimensionalità! Il percorso logico concettuale infatti può anche essere invertito: una figura piana, se proiettata nello spazio scomponendo i suoi elementi grafici su più piani, è in grado di generare una infinità di forme tridimensionali. Nella “Anamorfosi 01” ne ho scelta solo una.

La tua indagine affronta anche gli aspetti legati alla proiezione di colori complementari che opportunamente osservati attraverso occhiali anaglittici (occhiali per la visione 3D) restituiscono tridimensionalità, quasi un processo inverso rispetto alle esperienze visive descritte precedentemente, sulla bidimensionalità.

Anche in queste installazioni gioco sulla doppia lettura del percorso percettivo: quella iniziale, ovvero quella diretta, in cui due figure piane di colore complementare (rosso e ciano) generano,  se osservate con gli anaglittici, una figura tridimensionale e parallelamente propongo la lettura inversa, quella in cui si scopre che le due figure colorate sono le ombre della stessa figura tridimensionale, questa volta reale, illuminata da due sorgenti di luce puntiformi, una rossa e l’altra ciano, distanti tra loro 6,5 cm,  la distanza media tra due occhi. C’è biunivocità tra lettura e scrittura, tra visione e proiezione, tra occhi e sorgenti di luce.

 Queste “Installazioni Anamorfiche” non possono essere ricondotte esclusivamente ad una curiosità o ad un catalogo delle meraviglie come, per esempio, ne “Le musée des illusions” di Praga, ma le avvicinerei all’uso contestualizzato della Stanza di Amiens nel Museo della Mente di Roma.

Sono completamente d’accordo e l’accostamento alla Stanza di Amiens è assolutamente appropriato: la mia ricerca ha ricevuto uno slancio significativo dopo aver visitato la Stanza di Amiens nel 1970 all’interno di “Vitalità del Negativo ‘70” l’ormai mitica mostra d’arte contemporanea curata da un giovane Achille Bonito Oliva. Il principio su cui si basa l’illusione ottica nelle opere presenti nel “Le musée des illusions” di Praga è direi identico a quello della mia “Anamorfosi 01”: sono anamorfosi prospettiche tridimensionali. Però c’è una differenza sostanziale nella scelta del soggetto e quindi di tutta l’installazione: io scelgo figure geometriche elementari per esaltare l’aspetto spaziale, architettonico, scultoreo dell’installazione e non puntando solo sull’effetto “meraviglia” o “sorpresa” che genera l’illusione; punto soprattutto sull’aspetto concettuale della ambiguità insita nella lettura e rappresentazione spaziale di un’immagine bidimensionale capace di creare infinite possibili architetture… Ripeto: le mie installazioni non sono concepite per rappresentare in modo originale figure riconoscibili, come ad esempio facce di personaggi noti, e sono esse stesse l’oggetto da mostrare.

Ovviamente tutta la tua ricerca si basa sullo studio della rappresentazione prospettica, per certi versi alcune tue “Installazioni Anamorfiche” mi rimandano alla mente il prospettografo di Durer.

Premesso che non tutta la mia ricerca si basa sullo studio della rappresentazione prospettica, una parte è dedicata allo studio dell’immagine cinetica, anche in questo caso l’accostamento è assolutamente appropriato: le “macchine prospettiche rinascimentali”, come il prospettografo di Dürer, mi hanno sempre affascinato anche perché assomigliano a quelle che meditavo di realizzare prima che le studiassi. Alcune mie macchine visuali sono, per alcuni versi, una sorta di prospettografi completi di oggetto e della sua rappresentazione; sono macchine fotografiche macroscopiche sezionate, trasparenti, con i raggi di luce proiettanti materializzati in cavetti d’acciaio o fili di nylon ma con l’immagine di un oggetto virtuale proiettata scomposta su più piani… Difficile descriverle, è necessario osservarle e fruirle dal vivo nella loro tridimensionalità!

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Nelle “Installazioni Anamorfiche” di Alessandro Panzetti, sembrano essere stati individuati demiurgicamente quelli che egli stesso ha definito “i punti di vista privilegiati” per la ricomposizione e lo svelamento di una realtà nascosta, o forse un disvelamento dell’inconscio attraverso i sogni.

Da fotografo mi viene da pensare che, con tutte le differenze del caso, visto che non propongo “Installazioni Anamorfiche” o sculture astratte, scelgo quali elementi della scena mettere in relazione all’interno dell’inquadratura, in base al punto di vista arbitrario, per costruire una immagine bidimensionale che ritengo abbia un senso, un’immagine che comunque è commistione di oggettività (la cosa è stata là, ci ricorda Roland Barthes) e di motivazioni inconsce. Tutto parte da lì, dal punto di vista, che forse è anche il punto di arrivo.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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