Andrea Ottieri
Anche le favole finiscono

Tutti monarchici?

La morte di Elisabetta Windsor è stata salutata da una commozione generale quasi eccessiva. Perché nella parabola della regina c'è tutto il Secondo Novecento: dalla lotta per il progresso all'egoismo. Dai Beatles ai cappellini colorati

Quando un cronista malizioso – nel 1960, molto prima che fosse esautorato da Khomeini – chiese a Mohammad Reza Pahlavi, lo scià di Persia, quanti re sarebbero stati in carica nel Duemila, lo scià rispose con arguzia: «Cinque: il re di cuori, il re di quadri, il re di fiori, il re di picche e la regina d’Inghilterra». La profezia si è avverata, ma ha avuto un costo, ovviamente, pagato da tutti. Infatti, la parabola della regina d’Inghilterra Elisabetta Windsor si racchiude tra i due estremi dell’incoronazione e della morte. Quando salì al trono, nel 1953, governava un impero che si estendeva dal Sud al Nord del mondo, da Occidente a Oriente. Alla sua morte, oggi, il suo Paese dalla gloriosa storia è un piccolo punto isolato nel mondo globale, in odore di fallimento. Perso l’impero, la stessa unione con i paesi britannici appare in bilico: frutto di una politica miope che la regina appena scomparsa ha avallato anche al limite delle norme costituzionali del suo ruolo.

Curioso caso: il profilo multinazionale aperto dalla sua omonima regina Elisabetta Tudor e sancito dalla successione del 1603 affidata al re di Scozia (re Giacomo Stuart, alla morte di Elisabetta Tudor portò in dote l’unificazione con la Scozia), si chiude con la modestia politica che la storia ha dato in sorte a Elisabetta Windsor negli anni finali del suo interminabile regno.

Una casata da tabloid, si è detto tante volte: a questo la regina e suoi capricciosi congiunti debbono la loro fama internazionale. Lo spettacolo del matrimonio di Carlo e Diana (una rappresentazione fasulla messa in piedi genialmente dall’apparto della Corona) nel 1981 fu il primo atto della trasformazione della monarchia britannica in un’icona pop. Allestito dalla stessa regina che aveva stigmatizzato la cultura pop (quella vera) che vent’anni prima aveva trasformato Londra nell’ombelico del mondo, togliendo quel privilegio a Parigi che l’aveva saldamento conservato per un paio di secoli.

La controprova dell’efficacia pop di una regina tutta cani e cappellini color pastello è nel cordoglio affettato che sprizza in queste ora dai giornali e dai social: abbiamo perso l’ultima regina, l’ultimo sogno, l’ultima favola grazie alla quale una bacchetta magica avrebbe consentito a chiunque di diventare principessa. Come in un qualunque film hollywoodiano. È la parabola del Novecento, appunto: dalla resistenza al nazifascismo al neoliberismo thatcheriano, dal welfare globale alla difesa dei privilegi delle élite, dai Beatles a Fedez, da Tony Richardson al cinema demenziale, da Bobby Charlton a Harry Kane, dal Times al Daily Mirror. Un percorso lineare dal progresso al disimpegno, dalla solidarietà all’egoismo. La regina Elisabetta II ha cavalcato (letteralmente) questa gioiosa discesa negli inferi dell’etica pubblica. Ed è forse per questo che il mondo, oggi, la piange: in lei piange la nobiltà del sogno che si avvera solo per i privilegiati. Nella speranza che prima o poi tocchi a tutti essere privilegiati. Ai danni degli altri, beninteso: ma che importa? Per una notte, possiamo essere tutti monarchici.

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