Laura Pinato
Cronache dal Lido

Il cinema teatrale

Nathalie Boutefeu interpreta la moglie di Tolstoj chiusa in se stessa mentre Michal Vinik racconta il dramma di un'esule ucraina: due film «teatrali» che scelgono in modo molto personale (e diverso) la strada della finzione

Due pellicole proiettate a Venezia 79 regalano un’occasione per ragionare sulla specificità del mezzo cinematografico, rispetto al suo naturale antecedente e specchio: quello teatrale. Si tratta di Un couple di Frederick Wiseman (nella foto accanto) e di Valeria mithatenet (“Valeria si sposa”) di Michal Vinik.

Il primo è in concorso per il Leone d’oro e se per la durata reale (63 minuti) potrebbe essere quasi un mediometraggio, per la “durata percepita” equivale, se non supera, film che durano almeno il doppio: un tempo infinito in cui la protagonista, Sonja, interpretata da Nathalie Boutefeu, intraprende un contorto e inquieto soliloquio all’interno di un maestoso giardino situato a Belle-île, la più grande delle isole bretoni. Il monologo è tratto dalle lettere che la vera Sonja, moglie di Tolstoj, scambiava con il marito. L’intento del regista, chiaramente non è quello mimetico. La finzione è dichiarata. Anche l’ambientazione e la ricostruzione storica sono rese grossolanamente con l’intenzione di dichiarare la costruzione finzionale.

Unico personaggio è Sonja, che dialoga con la natura imperiosa del paesaggio e con se stessa, riflettendo sulla sua relazione con Leo. Difficile ricordare il contenuto di queste riflessioni, perché lo spettatore perde il gancio con il flusso di coscienza di Sonja dopo pochi minuti. La causa di ciò non risiede solo nella forma monologante della scrittura, ma anche nell’interpretazione dell’attrice, che probabilmente a teatro risulterebbe intensa e d’impatto, ma sullo schermo non funziona. Evidentemente, oltre a un problema di scrittura, questo film ne nasconde anche uno di regia. Il personaggio guarda a malapena in camera, si perde in un iperuranio tutto suo, sta chiusa in se stessa, come se non avesse davvero il desiderio di esprimersi. Su questo punto, si apre il grande dilemma del monologo in scena: con chi parla il personaggio? Con se stesso? Con lo spettatore? Sono semplicemente pensieri espressi? È necessario elaborare un meccanismo realistico oppure esiste un tacito accordo di sospensione della realtà?

Se nella finzione teatrale questa sospensione di realtà può essere sostenuta, anche per un intero spettacolo se l’attore è bravo, vale lo stesso per il cinema? Questo film sembra suggerire che non sia così. Non basta una brava attrice, non basta dichiarare la finzione sin dall’inizio e non basta che la fonte sia autorevolmente letteraria per rendere un testo un film. In questo modo si tradisce il senso stesso del mezzo cinematografico: il racconto per immagini, prima che per parole.

“Valeria si sposa” di Michal Vinik

Il secondo film, invece, è all’interno della selezione di Orizzonti Extra. Anch’esso è breve (dura 76 minuti) e ha in comune con il primo, come s’è detto, una certa vocazione teatrale: di fatto, se si escludono alcune piccolissime scene sacrificabili a livello di trama, si tratta di un dramma da camera, ambientato in un appartamento e in particolare nella sua zona living. La trama è semplice: Valeria arriva dall’Ucraina in Israele per il suo matrimonio, combinato dal marito di sua sorella. Dopo aver conosciuto il suo futuro sposto, però, si chiude all’interno del bagno della casa e si rifiuta di uscire per sposarlo. Il film risulta una specie di Carnage (il celebre film di Roman Polanski da un dramma di Yasmina Reza), è costruito con un buon meccanismo, che potrebbe sempre diventare un dramma, ma rimane invece sul filo della leggerezza, rasentando a volte un gusto vagamente grottesco.

Benché in questo caso si possa parlare di un’impronta teatrale, tuttavia l’impianto della sceneggiatura ha una perfetta resa cinematografica, dettata non solo e non tanto dai dialoghi, ma dall’impianto scenografico, dalla fotografia, dalla costruzione dell’azione, anche se limitata nel tempo e nello spazio. Se si considera una delle scene centrali del film, questa differenza risulta chiara. Valeria, la protagonista, si chiude a chiave in bagno e decide di non uscire finché il suo futuro sposo non se ne sarà andato: non vuole più sposarlo, anche se questo significa tornare in Ucraina. Questa azione, o meglio non-azione (Valeria per tutta la prima parte della sequenza non compare nemmeno, ma sappiamo che è dall’altra parte della porta del bagno), non ha bisogno di battute, ma genera un meccanismo a catena che influisce sul comportamento di tutti gli altri personaggi.

Il confronto tra l’impianto di questi due film, che possiedono sulla carta una vocazione più teatrale che cinematografica, fornisce uno spunto per riflettere su quali siano gli elementi che determinano un film nella sua natura di prodotto audiovisivo. Entrambi basano il loro meccanismo sull’aspetto verbale ed emotivo. Tuttavia la loro resa è molto diversa: se Un couple rimane su un piano verbale, Valeria mithatenet riesce a rendere le parole azione verbale, che si trasforma in azione visiva sullo schermo. Un couple affida totalmente all’interpretazione dell’attrice la trasmissione della storia e dell’emotività (come può succedere a teatro, dove in fondo a volte basta davvero una sedia e un ottimo interprete). Valeria mithatenet, invece, pur nella limitatezza, anche di budget evidentemente, affida la narrazione audiovisiva a tutti i diversi elementi che compongono un film.

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