Danilo Maestosi
Dalla Svizzera a Venezia

L’inferno di Music

Una mostra itinerante ricostruisce la "Stanza" che Zoran Music realizzò in Svizzera per la residenza delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher. L'occasione per ritrovare un maestro del dolore e dell'inquietudine

L’immagine più toccante in catalogo (una preziosa guida Skira, introdotta e curata da Paola Cadorin e Marcella Ciarnelli) è quella di un barcone che scivola lento verso l’imbocco del Canal Grande. Diretto a palazzo Fortuny dove quel mucchio di pannelli e di tele imballate verrà consegnato agli allestitori e montato a ricomporre quasi in ogni dettaglio lo scantinato dipinto e decorato più di mezzo secolo prima da Zoran Music (1909-2005) per la villa sulle colline che incorniciano il lago di Zurigo di due amiche collezioniste, le sorelle Charlotte e Nelly Dornacher.

Un tesoro dimenticato che inizia così, come centro d’attrazione di una mostra retrospettiva in omaggio al maestro sloveno, il suo ritorno alla vita attraverso una straordinaria operazione di distacco e recupero, avviata e curata da un mago del restauro, anch’esso scomparso, Paolo Cadorin.

È una prima tappa, datata 2018, cui si aggiunge l’appuntamento in corso di una seconda mostra in una cittadina delle Svizzera, Coira, sede della Fondazione che amministra i lasciti della famiglia Dornacher, e con una auspicabile terza esposizione a Gorizia, città natale di Music (che allora era una costola dell’impero asburgico), che nel 2025 sarà capitale europea della cultura. Insomma, la partenza e l’itinerario di un viaggio sovraccarico di messaggi nascosti come un rito misterico, riassunti nella foto di un barcone imbottito di reliquie in attesa di rinascita, miracolo che non a caso inizia a compiersi proprio lì in quel palcoscenico fluido di interminabili magie e precipizi di fantasia e di memoria che è Venezia. La culla dove i protagonisti che si distribuiscono le parti di questa storia hanno messo a fuoco le proprie aspirazioni e il proprio talento. Dove Paolo Cadorin, nato da una famiglia d’artisti ha scoperto nella vocazione di conservatore la strada per continuarne l’esempio. E dove Zoran Music ha trovato rifugio alla sua inquietudine di esule.

Una impresa da fantasmi. Terminata da altri. Tutti morti i suoi primattori, che parlano però attraverso le opere, le indicazioni e i sogni che si sono lasciati alle spalle. Un testamento che ci hanno consegnato in eredità. E ora arriva in esecuzione. Come quella Stanza di Zurigo che naviga sulla laguna come una profezia di deja vu.

Basta sfogliare il catalogo e lasciar scorrere le immagini che popolano quell’interno ormai dismesso, staccate dalle pareti per cui sono nate. E poi confrontarle con quel barcone, con quei fondali tra cui sta navigando. Ecco sulle tele e sugli affreschi ricomposti seguendo le istruzioni per l’uso di nuovi esperti, riapparire proprio la sagoma, più sagome che ci ricordano proprio quello stesso zatterone. Trasfigurate, certo, da uno sguardo d’artista che ne gonfia il profilo, ne ridisegna la carena e la riempie di oblò come la chiglia di un galeone resuscitato da chissà quali naufragi. Ne reinventa il carico: al posto delle casse una fila di cavallini dalmati, frenetici e impertinenti come quelli che da bambino Music vedeva galoppare e sfilargli davanti sulle crete del Carso, schegge di nostalgia come inviti a fermarsi e re-immaginare il futuro che il pittore continuerà a ripetere in infinite varianti per tutta la vita.

E poi, certo, l’intervento dei colori: gessosi e pallidi come echi di terre prosciugate e riarse, smorzati come poesie recitate a sussurri, svaporati e sfocati come le visioni a perdere dei sogni al risveglio, a rimarcare la lontananza che separa speranze e illusioni dallo spettacolo aspro, maligno della vita in diretta.  È l’assenzio in cui Music annega il ricordo degli orrori vissuti nel campo di sterminio nazista di Dachau dove fu rinchiuso per quasi un anno, sforando più volte la morte ma non lo spettacolo di metodici orrori con cui era amministrata, i corpi trascinati fuori delle camere a gas accumulati a cupola e calcinati come rifiuti. Ci vorranno quasi trent’anni perché trovi la forza e il coraggio di rappresentare quegli orrori rimossi. E mostrare le carte e i disegni che era riuscito a salvare dal lager, e che a partire dal 1970 trasferirà su tela in un ciclo intitolato Non siamo gli ultimi. Il racconto di un viaggio all’Inferno sul quale – ci spiega Jean Clair nel più intenso e illuminante dei saggi in catalogo­ – Music non tornerà più a soffermarsi, ma che riaffiorerà nella scelta della sua tavolozza e in una sorta di fuga ragionata nel purgatorio della malinconia, sponda sacra di una figurazione nella quale Music, resistendo alle tentazioni dell’astrazione, si riallaccia alle origini arcaiche della pittura.

L’idea della Stanza risale invece alla fine degli anni quaranta in un Europa che vuole liberarsi dalle cicatrici lasciate dalla guerra. Zoran non ha ancora superato il trauma di Dachau. Non dimentica ma insegue con il pennello altre suggestioni, altri temi.  Dipinge la luce di Venezia che acceca le cupole delle sue chiese e sbiadisce nell’acqua. Dipinge barche e gondole all’ormeggio e quei folli battelli

sui quali scalpitano puledri in miniatura. Dipinge spiagge e arenili dove gruppi di eleganti donnine innalzano i loro ombrellini. Ritrae Ida Cadorin, la donna che lo ha accolto nel suo studio e diverrà la compagna della sua vita. E dipinge anche le travi e le pareti di quella mansarda che trasforma in un rifugio e in uno scrigno della sua creatività.

In quel guscio arriveranno a stanarlo anche le due sorelle Dornacher, che vogliono consolidare l’amicizia iniziata in un soggiorno sulle Dolomiti e coglieranno immediatamente l’incanto di quelle immagini. Incanto che gli chiederanno di replicare, in piena libertà e con un ingaggio ben coperto nella cantina della loro villa di Zurigo di cui gli mostrano la pianta. In alto le camere da letto, al piano terra i salotti dove ricevono l’intellighenzia che conta. E giù invece, due locali mai finiti, le mura ancora grezze. In uno custodiscono un campionario di vini scelti. L’altro ambiente vogliono riadattarlo a taverna, un luogo dove bere insieme l’ultimo bicchiere e far notte a chiacchierare e sentire musica. Magari dal vivo come nelle cave parigine, che sono divenute il lavacro dove ci si sciacqua di dosso i dolori e i rancori della guerra appena finita e si progetta il futuro. Il modello di una Dolce vita in arrivo.

Un’offerta che non si può rifiutare. Per un pittore errante come Music non c’è solo la prospettiva di un lavoro ben pagato. C’è il richiamo della Svizzera, la possibilità di ampliare le sue conoscenze e il proprio mercato in continua ascesa. Ma soprattutto la possibilità di costruire una tana su misura del suo estro e delle sue ambizioni d’artista, collaudare intuizioni espressive che esaltino il suo culto della memoria ma gli consentano di tenere a bada i ricordi più ossessivi e più scomodi della prigionia e dello sterminio nazista.

Ci lavorerà per un anno, in quella cantina che gli sopravvive come la pagina di un diario segreto. Rimodellata anche nell’arredo. È lui a scegliere i mobili. Tavola, sedie, sgabelli. Persino la tovaglia, e le tende ricamate che oscurano se si vuole l’affaccio all’esterno. E le luci, quelle lampade a pallone di carta cinese, povere ma allora tutt’altro che banali, che bucano come lune la penombra, aggiungono il respiro della notte alla vista dei dipinti. Elementi di contorno apparentemente fragili che però hanno resistito all’usura del tempo e, recuperati, galleggiano ora ad accrescere la sensazione di magico salto all’indietro della ricostruzione in mostra.

Fuori, il bianco, la leggerezza tecnologica dei pannelli sottili con cui è stata risagomata la Stanza. E che parla la lingua di oggi. Dentro, il tesoro datato delle decorazioni e delle luci che ridestano l’atmosfera e l’immaginario di un tempo remoto, ne rivendicano l’attualità che accompagna sempre lo spettacolo della grande arte, oltre l’oblio capriccioso delle mode.

Tutt’ altro che facile l’impresa del pittore. Una sfida la tenuta degli affreschi applicati direttamente alle pareti con una tecnica di resa incerta del colore ad olio applicato a secco. Una sfida l’alternativa più usata di dipingere su riquadri di tele incollate poi al muro. Music le ha superate entrambe grazie ai consigli e all’esperienza di un superesperto di conservazione e restauro come l’amico e cognato Paolo Cadorin che allora dirigeva un proprio laboratorio di restauro prima di essere chiamato nel ’54 a dirigere quello del museo di Basilea, ed ha sin da subito impostato l’operazione in funzione della sua durata e della sua permanenza in condizioni diverse. È lui a preparare e dosare la stesura degli intonaci già in previsione di un distacco futuro delle superfici pittoriche, lui a studiare il modo con cui incollare alle pareti le tele per consentirne lo strappo e la circolazione in altri spazi. E sarà sempre lui a concepire ed accompagnare l’intervento di ricostruzione integrale dell’intero ambiente scegliendo fra l’altro i qualificatissimi esperti che lo porteranno a compimento dopo la sua morte. Lui a mettere a punto quell’involucro smontabile d’alluminio con cui ora la Stanza può essere ospitata in ogni museo ed offrire ai visitatori la possibilità di rivivere con la maggiore fedeltà possibile la vista di quel guscio dipinto. Che si sta rivelando d’occasione in occasione un tassello sempre più essenziale per comprendere il talento e la visione dell’arte di Zoran Music, prima che il successo, i premi e le apparizioni sulle grandi ribalte internazionali lo incoronassero tra i più ispirati maestri mondiali del secondo Novecento. Un titolo da genio di nicchia, isolato e intimista, che oggi purtroppo gli preclude l’attenzione della critica più modaiola, poco propensa a comprendere e apprezzare i valori puri della pittura, che inquadrano come una pratica al tramonto nel panorama di contaminazioni e provocazioni concettuali del contemporaneo.

Difficile, con questi pregiudizi, gustare a pieno i sapori delicati e sfuggenti di questa Stanza e il caos apparente delle immagini che la riempiono.

La rinuncia ad ogni gioco prospettico che usa alto basso come parti di uno stesso orizzonte. Il ripetersi di temi simili sul soffitto e sulle pareti. L’intreccio di accostamenti che paiono arbitrari: accanto ai panorami ricorrenti di Venezia, il preferito è lo scorcio di punta della Dogana e della chiesa di San Giorgio inquadrati da piazza San Marco, ai barconi di cavalli, alle donnine con ombrellini spuntano fasce di ritratti: per ben due volte – e non è piaggeria- ecco il volto delle due committenti, e in un altro riquadro quello di Ida Cadorin, la sua musa e compagna, in un altro ancora l’abbraccio stilizzato delle Tre grazie, che evoca il profumo del mondo classico, o un nudo disteso sul sofà in una posa da tradizione.

La bussola da seguire per attraversare questo labirinto non è la perfezione della geometria e della simmetria dell’insieme. Ogni riquadro, o gruppo di riquadri come il trittico dei barconi che domina la parete di fondo, è e nasce come un mondo a sé, perché la pittura per Music vive di folgorazioni emotive. Una rivelazione che l’artista comunica solo a chi accetta questa sintonia e ci si immerge, accettando di isolarsi dal resto, nell’armonia della solitudine e dei pensieri che da essa possono sgorgare. Stato d’animo che non è forse azzardato attribuire a chi frequentava i dopocena in questa taverna, il calore e il torpore del vino già bevuto, un altro calice in mano per tirare fino a tardi, e poi le chiacchere, le discussioni improvvisate: come non provare la voglia, il bisogno di un punto di fuga? E allora ecco la calamita di una tela che ti era sfuggita e ora ti abbraccia all’improvviso o ti strizza l’occhio in cerca di complicità. O ancora ti commuove senza consentirti difese. A quel punto che importa se la stanza ti si stringe addosso o invece ti invita a sdraiarsi e perderti come ti succede davanti ad un cielo di notte che a volte ti appare così vasto che non sai più se è in alto, al tuo fianco o sotto i tuoi piedi.

Certo bisogna predisporsi all’attesa. Sottrarsi alla frenesia ordinatrice della ragione. Mettersi in ascolto. O guardare con occhi stanchi e indifesi la magia amorosa di quelle ombre lunari come la Marinella di Fabrizio De André, anche se sai che è un’ebrezza ti può far cadere nel fiume e annegare. L’amore e la morte sono in fondo i registri di tutte le opere di Zoran Music. Il timbro lieve come polvere dei suoi colori.

Fantasie? Non sono rimaste – a smentita o conferma – o almeno non hanno trovato posto in catalogo testimonianze dirette degli ospiti di quel sottoscala affrescato. Peccato. Quegli appuntamenti non durarono molto. Qualche anno dopo la cantina sopra Zurigo delle sorelle Dornacher non era più un punto d’attrazione mondano. E finì per andare in rovina. Ma il fuoco di quella scommessa creativa è rimasto acceso. E ora torna, riprende a scaldarci.

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