Laura Pinato
La scomparsa di un mito

Le forme di Godard

Consumato il clamore per la sua morte, occorre ancora riflettere su Jean-Luc Godard e sulla sua capacità di mescolare favola e cronaca. Per lui la comunicazione era tutta una questione di linguaggio, non di stile

Nato il 3 dicembre 1930 sotto il segno libertario e spontaneo del Sagittario, Leone d’oro 1984, Oscar alla carriera 2011, morto nel clamore e nel lutto generale il 13 settembre 2022, facendo parlare di sé fino all’ultimo per la scelta del suicidio assistito. Una quantità esorbitante di lungometraggi. Un’influenza incalcolabile sul cinema mondiale del tempo e soprattutto su tutto quello successivo. Come raccontare nello spazio di poche centinaia di battute Jean-Luc Godard? La produzione cinematografica di Godard è talmente vasta da essere canonicamente divisa almeno in tre periodi. Il primo è quello della nascita e stabilizzazione della Nouvelle Vague, a partire dal suo primo lungometraggio, già un capolavoro, À bout de souffle (1960). Il secondo periodo, che risente del tormentato matrimonio del regista con la teoria marxista, è caratterizzato da un’opposizione al concetto di autorialità, attraverso la nascita del collettivo Dziga Vertov. A questo periodo vengono tuttavia attribuite anche creazioni come Le Vent d’est (1969), unico film in cui ha lavorato con Gian Maria Volonté, e Tout va bien (1972), realizzato dopo mesi di rifiuto della vita pubblica. Il terzo periodo è quello, infine, del “cinema contro il cinema”, dell’immagine contro se stessa, forse il più estremo e sperimentale. Difficile trovare degli elementi immediati che accomunino tutti i film di Godard. Se fossi costretta a identificarne uno, con grande sforzo direi che il suo cinema è un connubio volutamente stridente tra afflato favolistico e rude cronaca dei fatti.

Non si deve però fare l’errore di pensare che questa caratteristica sia meramente una cifra stilistica. I film di Godard appaiono inevitabilmente, soprattutto agli occhi dei posteri, con un certo stile, non si può negare. Tuttavia, è come se si trattasse di un plus, di qualcosa che c’è ma poteva tranquillamente non esserci. Non è questione di stile la forma in cui sono concepiti i film da Godard, ma di puro linguaggio. C’è una grande differenza. Si pensi alla forma narrativa, per esempio, di un racconto breve. Il racconto avrà necessariamente il proprio linguaggio che dipende dalla lingua in cui si scrive, dal background culturale e personale dell’autore, dall’incastro fisico, grammaticale delle parole. Nel caso del racconto, tralasciando il suo mezzo di diffusione, per esempio cartaceo, gli elementi che compongono il linguaggio sono estremamente limitati. Si tratta in fondo di lettere predisposte una accanto all’altra o spaziate fra loro che assumono un significato agli occhi del lettore. Tutto ciò che fuoriesce dai pochi elementi propriamente linguistici individuati è una scelta di stile. Ora si trasli questo stesso discorso sul cinema. La situazione si complica, decisamente. Il linguaggio cinematografico combina tantissimi elementi. Per citarne alcuni: parole, suoni, luci, colori, posizionamento della telecamera, durata dei frame. Su tutti questi elementi vengono effettuate delle scelte grammaticali, linguistiche appunto (per esempio l’utilizzo di una camera a mano, oppure della carta fotografica invece di quella filmica, oppure della presa del suono diretto, per citarne alcune presenti nella filmografia di Godard), che inevitabilmente poi creano uno stile, ma che sono preliminari ad esso. Ecco, l’afflato favolistico e la riduzione del reale a mera cronaca sono il frutto di una sperimentazione linguistica, non stilistica, in Godard. Lo stridente accordo tra questi due estremi è ciò che stilisticamente ne risulta.

Godard, d’altronde, inizia il suo studio analitico, oserei dire ossessivo a tratti, ben prima di diventare un regista: nel suo brillante avvio nel mondo dell’audiovisivo come critico. La sua produzione da articolista e saggista è altrettanto vasta rispetto a quella da regista. Ma è sufficiente fare riferimento al suo primissimo articolo pubblicato per avere traccia di questa esigenza di lavorare direttamente sul linguaggio cinematografico, piuttosto che sui suoi significanti. L’articolo è intitolato Joseph Mankiewicz, si tratta di un breve pezzo sull’omonimo regista americano-polacco apparso nel 1950 nella rivista Gazette du Cinéma, fondata da Éric Rohmer, Jacques Rivette et Francis Bouchet. Al di là del breve resoconto delle trame dei film di Mankiewicz, Godard si sofferma sull’analisi della loro “forma cinematografica”. Per esempio riguardo la pellicola A Letter to Three Wives, il critico francese scrive che è il primo film “raccontato in forma di lettera” e che con esso il regista americano riscopre “lo scopo intrinseco della forma epistolare”. Nel commentare House of strangers, subito dopo, sottolinea invece come le scelte drammaturgiche costringano Mankiewicz a una “severa oggettività narrativa”. Già dal suo primo breve articolo, quindi, emerge come il giovane Godard sia interessato alla grammatica del linguaggio cinematografico.

D’altronde anche la tanto utilizzata etichetta “cinema politico” andrebbe letta in questo senso per la sua produzione. Si pensi a una pellicola come Weekend (1967, nella foto), che presenta come tema centrale quello della violenza, che simbolicamente rimanda alla violenta costrizione del sistema nei confronti del singolo individuo. Non solo le scene rappresentano violenza, ma sono costruite nei loro elementi strutturali con violenza. Viene spesso prediletta un’inquadratura fissa e larga, per esempio, per permettere alla crudezza dei fatti, totalmente surreali in un ipotetico sistema mimetico di rappresentazione sposato da molto cinema, di apparire esattamente per come sono, come se un passante filmasse quasi per caso. Non c’è un montaggio elaborato interno alle scene. Le immagini e le azioni degli attori, così come il loro linguaggio spesso scurrile, si impongono diretti, apparentemente senza filtri, crudi. Anche l’alternarsi dell’utilizzo della quarta parete e della voce fuori campo, che diventa un corrispettivo cinematografico dei cartelli brechtiani, è una scelta volta a sputare letteralmente in faccia allo spettatore, con inaudita e intrinseca aggressività, la sua miseria di piccolo borghese. L’elemento politico, quindi, non è mai in Godard una presa di posizione contenutistica concettuale (può diventarlo in seconda battuta solo in alcune pellicole del periodo vertoviano), ma sempre una scelta di linguaggio. La necessità politica nei film di Godard dà forma alla grammatica stessa di costruzione del prodotto audiovisivo, è una caratteristica che assume un connotato di matericità, come forse in nessun altro regista nella storia del cinema. Godard fa prima di tutto un’operazione materiale nella costruzione di un film e l’atto stesso di questa creazione rende il suo film politico. Il problema principale della regia, d’altronde, per il francese, è filosofico e si innesta su quello antico del rapporto tra le parole e le cose. Si potrebbe dire che la natura politica del cinema di Godard arriva direttamente alle cose e non si ferma alle parole. Per Godard la libertà politica passa inevitabilmente, nel racconto audiovisivo, da quella linguistica, con la quale sperimenta sin dalla primissima pellicola.

Un regista certamente radicale, quindi, che attinge la sublime poesia che si respira tra una scena e l’altra dei suoi capolavori direttamente dalla brutalità della vita vera, dipinta sulla pellicola non tanto per quello che è, ma per come veramente è. Quasi come se la vita, quella più truculenta, più cupa, più sadica, ma anche quella più poetica e mistica, si velasse nella realtà e si disvelasse nella verità che solo la macchina da presa può catturare. Lo sguardo cinematografico di Godard appare in fondo come l’occhio spalancato e sbalordito di chi è inorridito ma al contempo inevitabilmente e misteriosamente attratto da ciò che gli capita di vedere.

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