Laura Pinato
Cronache dal Lido

La pandemia di Virzì

Alla Mostra del cinema di Venezia arriva "Siccità", il nuovo film di Paolo Virzì che racconta una Roma terribile messa in crisi da un nuovo Covid. Un film corale, potenzialmente fortissimo, ma che finisce per perdersi fra troppe storie

Il penultimo giorno di Venezia 79 offre un atteso film italiano fuori concorso: la nuova creazione di Paolo Virzì, Siccità. Una sceneggiatura scritta a otto mani dal regista insieme a Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo e prodotta da Wildside. In questo nuovo film il regista livornese crea un dramedy distopico e di vocazione fortemente sociale, dipinto dalla sapiente fotografia di un impeccabile Luca Bigazzi.

A Roma non piove da tre anni. Il Tevere è completamente prosciugato, tanto che sul suo letto vengono ritrovati diversi antichi reperti. La mancanza d’acqua è un problema ormai serissimo e viene razionata. Per i più ricchi, la vita non è cambiata poi tanto. Ma per i più poveri, che vivono in quartieri maggiormente periferici, la quantità di acqua pubblica utilizzabile è estremamente limitata. Il clima di tensione è molto forte. Una delle conseguenze di questo lungo periodo di siccità è la sorprendente moltiplicazione delle blatte presenti in città, che colonizzano le strade e le case. Gli insetti sono veicolo di una nuova malattia, che procura febbre e letargia, con il rischio di portare anche alla morte.

La storia che emerge in questa cornice di crisi è corale: viene messo in scena un piccolo stralcio di vita di diversi personaggi, interpretati da un cast d’eccezione, che scopriamo tutti collegati tra loro. Claudia Pandolfi è la dottoressa che identifica per prima la nuova malattia e capisce quale sia il collegamento con la siccità. È una donna che ha problemi con il compagno, un avvocato interpretato da Vinicio Marchioni, e che ha un difficile rapporto anche con l’ex marito, Valerio Mastandrea, tassista sempre strafatto, che a causa della droga e della nuova malattia che lo colpisce ha continue allucinazioni. Diego Ribon interpreta un esperto professore di climatologia, un idrologo, che inizialmente prende molto seriamente la sua missione professionale e il suo ruolo appena arrivato a Roma. A causa della fama in cui si ritrova immerso grazie alle sue apparizioni televisive, però il professore si lascia corrompere, soprattutto dopo aver fatto la conoscenza di un’affascinante attrice, che è un suo mito, interpretata da Monica Bellucci, che lo invita a “sprecare” insieme a lei l’acqua facendo una vasca idromassaggio in un attico romano dal paesaggio mozzafiato. Silvio Orlando è un detenuto ospite di Rebibbia da venticinque anni, che evade per sbaglio. Decide allora di cercare la figlia, Sara Serraiocco, infermiera impegnata nella lotta alla nuova pandemia, che è incinta. Il padre del bambino è un ragazzotto senza arte né parte, che non riesce a tenersi un lavoro e compie anche piccoli furti, interpretato da Gabriel Montesi. Il ragazzo ottiene un nuovo lavoro da amici di famiglia della fidanzata: diventa la guardia del corpo della figlia (Emanuela Fanelli) del ricco proprietario di una catena di hotel termali, accusato di sprecare l’acqua pubblica. Tommaso Ragno e Elena Lietti interpretano una coppia di attori falliti che hanno grossi problemi con il figlio adolescente. Lui cerca di riscattarsi sui social, lei lavora in un supermercato. Infine, Max Tortora interpreta un commerciante mandato in totale rovina dalla crisi, che aspetta solo il suo momento per denunciare in televisione la sua situazione. I personaggi sono stretti in una rete di rapporti diversi, un po’ come accade davvero in una città come Roma.

Il parallelismo con l’esperienza e la crisi italiana del Covid19 è evidente: una nuova malattia, una crisi economica, la disinformazione dilagante, il successo di figure professionali prima nell’ombra. Particolarmente evidente il parallelismo nelle figure del climatologo che sperimenta la corruzione a causa dell’improvvisa fama, del commerciante ridotto al lastrico e della dottoressa che diventa un’eroina. L’interesse maggiore del film, tuttavia, è l’idea che una situazione di emergenza, come può essere la siccità e come è stata la pandemia, non crei davvero nuovi problemi, ma acuisca quelli già esistenti, a più livelli: personale, sentimentale, lavorativo, sociale. Le storie di ognuno dei personaggi, infatti, hanno come sfondo quello della crisi ma analizzano gli effetti specifici che essa ha nelle vite dei personaggi. Di fatto si parla poco di siccità e molto d’amore, di crisi personale, di malessere. Di cosa parla davvero Siccità? Del disagio sociale attuale, io credo, a tratti solo latente, a volte letteralmente esploso, nella società italiana, ad ogni suo livello in modo diverso. All’interno del film emergono i fattori che caratterizzano questo disagio: l’egoismo, la disinformazione, il disinteresse.

Quella di Siccità sembra proprio la cornice narrativa perfetta per raccontare la nostra esperienza pandemica attraverso un parallelismo, un’immagine alternativa ma perfettamente calzante. Sulla carta, questo film ha potenzialità notevoli, che in parte però disattende. Il film non è capace di scavare davvero in profondità nelle (molte, forse troppe) questioni che solleva. Manca a tratti di focalizzazione. La concentrazione delle energie creative su un tema è fondamentale per ogni tipologia di film, ma è imprescindibile per i film corali, per scongiurare il rischio che le parti risultino scollate l’una dall’altra.

In Siccità siamo trascinati da una parte all’altra e non sempre siamo in grado di raccordare, in un consono tempo narrativo, tutti i fili. A volte il tempo per assimilare le diverse situazioni non appare sufficiente. Se si pensa a un film americano uscito lo scorso anno, che è una reference naturale per il pubblico, si può capire meglio questa debolezza. Parlo di Don’t Look Up, scritto e diretto da Adam McKay. Per chi non l’avesse visto è la storia di come l’umanità reagisce (malissimo) a un meteorite che si sta per schiantare sul pianeta. Chiaramente le due produzioni hanno un budget così diverso che risultano imparagonabili dal punto di vista attuativo. Si può però fare un confronto sulla scrittura. Don’t Look Up, per quanto non lo ritengo minimamente un capolavoro, parla sostanzialmente di una sola cosa: il collegamento tra lo spread di disinformazione e l’interesse personale dei potenti. Molti dei personaggi sono costruiti in modo grottesco e surreale, sono quasi tutti sopra le righe. Questa scelta rende lo stile unitario e dà la possibilità di approfondire il tema. La cornice apocalittica, in questo caso, è funzionale a raccontarlo in modo potenziato. Nel film di Virzì, invece, le storie rimangono sottili e anche stilisticamente non riescono a ottenere una funzionale unità. Anche le interpretazioni degli attori, per quanto siano efficaci singolarmente e buone nella media, non possono che rispecchiare questa caotica organizzazione degli elementi audiovisivi. Quelle dei personaggi, pure immerse in una cornice così suggestiva, rimangono “piccole”, personali, scollegate di fatto alla cornice, poco incisive. Siccità rimane comunque, nel panorama attuale italiano, una proposta da vedere, anche se non posso evitare di definirla un’occasione mancata.

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