Laura Pinato
Cronache dal Lido

Kim Ki-Duk e il Caso

Alla mostra del cinema di Venezia arriva il film postumo del regista coreano Kim Ki-Duk. La storia di una donna che si divide tra sogno e realtà. Ma in realtà è una riflessione sul senso del destino: in che misura siamo padroni di noi stessi?

«Che cos’è la vita? Cos’è la giovinezza? Che cos’è la vecchiaia? Tutti gli esseri umani invecchiano e alla fine muoiono. Più ci si avvicina alla morte, più gli esseri umani sentono la mancanza e ricordano la loro giovinezza. Mi manca la giovinezza dei miei vent’anni. Tuttavia, poiché ho commesso molti errori in gioventù, se potessi tornare indietro nel tempo, vorrei davvero agire bene. Ma la vita non può mai tornare indietro». Queste le parole del regista coreano Kim Ki-Duk, che appaiono nel primissimo frame del suo atteso film postumo Kõne Taevast (La chiamata dal cielo), approdato a Venezia. In sala l’inizio del film è accompagnato da un commosso applauso di tributo per il regista scomparso nel 2020.

Il film racconta sostanzialmente un lungo sogno fatto da una giovane donna. Inizialmente il sogno è piacevole: incontra un uomo che la affascina e da cui si sente terribilmente attratta. Sembra proprio che possa sbocciare fra loro una di quelle storie d’amore favolose, due sconosciuti che si incontrano e vengono travolti da un colpo di fulmine. Tuttavia molto velocemente la situazione degenera: entrambi manifestano all’interno della relazione una gelosia e un’ossessività inaudite. La violenza di questa loro ossessione l’uno per l’altro, che li stringe in pochissimi giorni in un rapporto sempre più morboso, provoca involontariamente la morte di un’altra donna, legata sentimentalmente all’uomo. Da qui la spirale di violenza, ossessione, malattia aumenta all’inverosimile. La loro storia d’amore sopravvive alla fine, nel sogno, ma a quale costo? L’elemento che conferisce senso a questa trama è però esterno ad essa, sta nella cornice la che racchiude. La ragazza che dorme, che è la stessa protagonista del sogno, viene svegliata a intermittenza da una chiamata, che proviene sempre dallo stesso numero sconosciuto, che la informa che è libera di bloccare il sogno quando vuole, le basta svegliarsi e l’indomani il sogno si avvererà fino a dove lei avrà deciso di condurlo. La ragazza, pur nelle lacrime e nell’inquietudine che le procura il sogno, decide di arrivare fino alla fine della sua storia. L’indomani, come previsto dalla misteriosa voce dall’altro capo del telefono, si sveglia e la sua mattinata comincia esattamente come nel sogno con l’incontro di quest’uomo.

Questo non è un film che parla della discrasia tra sogno e realtà, come potrebbe forse sembrare. È un film che parla di destino. Il sogno è semplicemente un mezzo espressivo per mostrare il modo in cui le cose potrebbero avvenire, a partire dall’aspettativa che abbiamo sull’amore e dai desideri che ci spingono. La protagonista si trova ad essere una spettatrice esterna di se stessa e si osserva nei sintomi che questo amore totalizzante le procura: cattiveria, totale mancanza di empatia, ossessività. Diventa diabolica, in una spirale di malattia da cui non riesce più a uscire. Il senso del film sta proprio nella domanda che come spettatori ci poniamo di fronte al finale: riuscirà la ragazza ad evitare di diventare il mostro che abbiamo visto nel sogno? Oppure il destino che ha visualizzato nel proprio sommerso mondo onirico avrà il sopravvento? Il passaggio alla sfida contro il destino, dettato dalle aspettative e dalle proiezioni non controllate, è marcato in modo inequivocabile anche dal passaggio dell’uso del bianco e nero al colore nel finale.

Non è un passaggio netto, è come se l’immagine, nel finale del sogno, si liberasse dal guscio della scala di grigi per acquisire vita e quindi speranza. Solo nel finale, in fondo, capiamo perché quelle parole del regista vengano proiettate a inizio film. Il senso della pellicola sta tutto lì: se avessi la possibilità di agire meglio, conoscendo il tuo futuro o potendo riavvolgere il passato, lo faresti davvero? Il film non è disfattista nella riposta, tutt’altro. Lascia aperta la reale possibilità che la ragazza possa cambiare le cose, anche se non lo mostra. Sta allo spettatore immaginare un finale amaro in cui la storia appena vista si ripete, oppure un finale positivo in cui lei riesce a vincere se stessa. La misteriosa voce al telefono in una delle incursioni nella cornice che svegliano la protagonista, le ricorda che nella vita lei ha sempre la possibilità di scegliere. Questa semplice battuta dice molto sul mondo che Kim Ki-Duk vuole raccontare: quello di un destino umano, nel bene e nel male, scelto dall’uomo stesso. Ognuno è responsabile delle scelte che compie. Tanto più lo è la protagonista dopo che le è stato concesso il privilegio di vedere il proprio destino.

Un film che non lascia indifferenti, l’ultimo del regista coreano. Possiede molte delle caratteristiche del suo cinema, a partire da un esistenzialismo esasperato che si concretizza nell’immagine e nel plot stesso. Non si può dire che sia il suo migliore né il suo testamento spirituale, tuttavia lascia un segno. È la lucida rappresentazione di un incubo che fa lasciare la sala con una certa inquietudine.

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