Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il tempo di Bauchau

Alla riscoperta di Henry Bauchau, patriarca della letteratura belga che ha indagato i rapporti tra tempi e generazioni. Sempre cercando di ricucire della vita, una breve, fortunata parentesi fra due stati di non-essere

Mesi fa, parlando della scrittrice belga Jacqueline Harpman, (https://www.succedeoggi.it/wordpress2022/06/caso-jacqueline-harpman/) ho menzionato, per talune similitudini e coincidenze, un altro scrittore, anch’egli belga, anch’egli di espressione francese e soprattutto anch’egli psicanalista. Si tratta di Henry Bauchau, che in ragione anche della sua lunga vita (quasi cent’anni, pienissimi) possiamo considerare – accanto al fiammingo Hugo Claus, autore del grandioso e potente affresco narrativo La sofferenza del Belgio – una specie di patriarca della letteratura belga del Novecento.

A dieci anni dalla morte, avvenuta il 21 settembre 2012, Bauchau è sempre al centro dell’attenzione critica, almeno nei paesi francofoni. Ma non solo: anche l’Italia ha contribuito con numerosi studi, di diverso orientamento e dai punti di vista molteplici, studi che tuttavia non sono riusciti a farlo uscire da un ambito prettamente accademico. Da noi, le vendite dei suoi libri sono sempre state deludenti: per ammissione degli editori, quello che ha avuto più successo non ha raggiunto le quattromila copie vendute, gli altri si sono attestati fra le millecinquecento e le tremila copie.

Scarsa pubblicità, distribuzione poco capillare? Può darsi. Ma, a dire il vero, Bauchau non è mai stato uno scrittore facile. E non per ragioni sintattiche o lessicali; aveva anzi una spiccata propensione per l’andamento paratattico, per la scelta di termini comuni e facilmente comprensibili, per la rielaborazione di storie già note, a cominciare da quelle della tragedia greca, da Edipo ad Antigone. La difficoltà per il lettore risiede semmai nell’individuazione del vero e proprio centro della sua scrittura, delle reali finalità, spesso dissimulate dietro trame e costruzioni narrative che sembrano portarci altrove e rivelarsi perfino, in qualche caso, contraddittorie.

Si prenda a mo’ d’esempio uno dei suoi romanzi più rappresentativi, Le régiment noir, 1972 (Il reggimento nero, uscito da noi per i tipi di Giunti nel 1997). È la storia di Pierre (non a caso omonimo del padre di Bauchau), un ragazzo di famiglia benestante che lascia la Francia quando i genitori gli impediscono di intraprendere la carriera militare e che si trasferisce negli Stati Uniti, dove prenderà parte alla guerra di Secessione a fianco dei nordisti. Rotto il cordone ombelicale con l’infanzia – il concetto di secessione riguarda anche il suo allontanamento dalla casa paterna e la scelta di una nuova “patria”, ovvero di un nuovo territorio del Padre –, Pierre dovrà trovare un’altra comunità d’appartenenza e creerà appunto un reggimento composto unicamente da soldati neri, esponendosi a tutti i rischi che l’entusiasmo e l’idealizzazione comportano. Siamo quindi di fronte a un romanzo di guerra e d’avventura con qualche sfumatura western (è stato definito da un critico un “western dell’inconscio”) e al tempo stesso non lontani dal romanzo d’iniziazione e di formazione, così caro alla tradizione europea. Ma Bauchau è anche psicanalista, e di questo non si dimentica mai, ragion per cui il romanzo si arricchisce (e talora si appesantisce) anche di una palese vernice edipica, della spasmodica ricerca della figura di un padre, ricerca che quello naturale non è riuscito a soddisfare. Come spesso accade in Bauchau, che ama moltiplicare le prospettive ed è affascinato dal tema del Doppio, il protagonista non è uno solo, ma due: a Pierre, un borghese bianco, viene infatti giustapposto, quale contraltare che oltretutto farà una miglior riuscita, Johnson, uno schiavo nero in fuga che nel corso del romanzo si trasformerà prima in soldato semplice, poi in un condottiero (il colonnello Johnson), in seguito ancora nel domatore di leoni di un circo itinerante e infine nell’autorità indiscussa di un villaggio, rinunciando a facili quanto superficiali onori e trovando la propria realizzazione nell’insegnamento. A differenza di Pierre, in collera e in lotta con la famiglia d’origine e con l’universo intero, Johnson – che nel corso del romanzo cambierà nome varie volte fino a diventare (anche di fatto) Maestro John – combatte e si spende in favore di qualcosa, per la comunità in cui finirà per integrarsi. Per chiudere su questo romanzo, un piccolo bonus: il lettore che riuscirà a superare la prolissità di alcune sue parti troverà, alla fine del libro, un’interpretazione interessante, sconsolata e per nulla banale dell’esito della guerra di Secessione americana. “Abbiamo fatto,” scrive Bauchau, “abbiamo vinto una guerra di Bianchi. (…) Dopo gli Anglosassoni, ognuno avrà il suo posto in America, i Tedeschi, gli Scandinavi, gli Irlandesi, i Latini. Ciascuno parteciperà al dollaro, ciascuno farà pressione, spalla a spalla con i suoi, nel grande cerchio allargato all’infinito. Solo i Neri e gli Indiani non avranno la loro parte. (…) Cavallo Rosso [ovvero Pierre] si chiede se il cuore dei Neri e la morte degli Indiani non siano il tesoro nascosto dell’America.”

Per sua stessa ammissione, Bauchau è uno scrittore della maturità, sia perché comincia tardi l’attività letteraria – esordisce a più di quarant’anni –, sia perché i suoi temi e le sue ossessioni sono quelle dell’uomo maturo che guarda indietro e rielabora quanto gli è capitato nella vita. L’impulso principale a scrivere nel suo caso è dato, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, dalle sedute psicoanalitiche con l’analista freudiana Blanche Reverchon, moglie del poeta Pierre-Jean Jouve, iniziate per guarire da una profonda depressione. Non è quindi un caso se le prime prove saranno appunto poetiche (Géologie, uscito nel 1958 ma contenente poesie scritte fin dal 1950) e se solo in seguito Bauchau si orienterà verso il teatro – da citare sarebbe almeno Gengis Khan (in Italia Panozzo, 1995), messo in scena nel 1961 da una compagnia di studenti universitari guidata da una giovanissima Ariane Mnouchkine ai suoi esordi – e poi verso la narrativa, con La déchirure, 1966 (La lacerazione, pubblicata in Italia sempre da Panozzo nel 2001), un testo dalle tonalità intime, a metà fra il romanzo vero e proprio e una autofiction che lascia emergere le preoccupazioni dell’inconscio. Qui ha grande importanza, pur a distanza di un decennio dalle sedute psicoanalitiche, la figura della Sibilla, ovvero della stessa Reverchon in quanto facilitatrice della presa di coscienza del protagonista. E proprio la “lacerazione”, connessa in questo libro con il difficile rapporto con una madre assente, Marthe, di cui si narrano gli ultimi giorni di vita, e nel successivo Le régiment noir, invece, con quello con il padre, sembra essere un termine-feticcio per inquadrare tutta l’opera del Nostro.

La prima di queste lacerazioni è però quella provocata dalla Grande guerra e dall’incendio della casa materna a Lovanio nel 1914, più volte evocato nei suoi libri. Dopo aver condotto una seconda formazione psicoanalitica con Conrad Stein, cui fra l’altro dedicherà Il reggimento nero, Bauchau diventa psicoterapeuta a Parigi, dove si trasferisce definitivamente nel 1975, occupandosi prevalentemente di adolescenti in difficoltà. Continua l’attività poetica e letteraria, s’interessa di mitologia e impiega otto anni per redigere una monumentale biografia di Mao Tse-tung molto apprezzata ma pochissimo letta. Scrive poi la “trilogia tebana”, composta dai romanzi Oedipe sur la route, 1990 (Edipo sulla strada, Giunti 1993), Diotime et les lions, 1991 (Diotima e i leoni, Giunti 1993) e Antigone, 1997 (Giunti, 1999), un personaggio, quest’ultimo, molto caro alla letteratura francese (si pensi solo all’omonimo dramma di Jean Anouilh). In tutti questi libri, che rievocano il percorso iniziatico di Edipo attraverso una scrittura in cui affiora sempre il primato del sogno, dell’inconscio e del dettato poetico, Bauchau indica – in una originale sintesi fra mistica cristiana e filosofie orientali – una via per la riscoperta della propria individualità personale, dove sensi di colpa, rancori e resipiscenze devono lasciare il posto a una sorta di amore universale, basato sull’ascolto e sulla pazienza. Sono doti, queste, incarnate in particolare dal personaggio di Antigone, che tenta inutilmente di mediare fra Eteocle e Polinice, i due fratelli in guerra. Un’altra difficoltà nella scrittura di Bauchau, di cui si rendeva conto e che ha anzi evocato egli stesso in varie interviste, è la sua resistenza all’evoluzione tematica, il suo insistere in maniera quasi ossessiva su alcuni argomenti, fra cui primeggia il caos derivante dall’impossibilità di rimettere in sesto e di dare senso a un’esistenza partita su basi sbagliate. Tutto il percorso e la sconfitta finale di Antigone, a questo proposito, sono emblematici.

Henry Bauchau, rielab. Succedeoggi

L’ultimo premio di una tardiva ma straordinaria carriera Bauchau lo riceverà nel 2008, all’età di novantacinque anni, per Le boulevard péripherique (da noi Il compagno di scalata, E/O 2009), libro composito e sfuggente, in cui, pur confessando di aver avvertito come il vocabolario gli si stesse vieppiù restringendo, Bauchau riesce pur sempre a unire con mestiere i fili di due storie molto distanti anche sotto il profilo temporale: da un lato le sue visite in ospedale alla nuora Paule, gravemente malata – e l’infernale attraversamento di Parigi, percorrendone appunto in macchina la tangenziale, diventa metafora degli ostacoli e impedimenti che costellano la nostra vita –, dall’altro la rievocazione di un giovane amico dei tempi della Resistenza, colui che lo inizierà ai piaceri delle scalate in montagna, finito vittima dell’insensata violenza nazista. Anche qui, come nei romanzi precedenti, Bauchau si serve a piene mani dell’espediente del sogno, che gli è utile fra l’altro per dar voce all’altra sua preoccupazione costante, l’esigenza di contemperare dionisiaco e apollineo, di individuare cioè nella letteratura (e nell’arte tutta) non solo l’esigenza di dar corpo all’irrazionale, e dunque all’elemento dionisiaco, ma altresì di imbrigliarlo in una forma metodicamente fissata, limitandolo quindi con l’elemento apollineo.

Sui temi dei primi romanzi e sul punto di vista privilegiato dell’infanzia, con lo scontro tra famiglia e singolo individuo da cui quest’ultimo esce sempre sconfitto o quanto meno “lacerato”, pagando con l’estraniamento e l’esilio, Bauchau ritornerà poi, quasi a chiudere il cerchio, con i due volumi de L’enfant rieur, usciti rispettivamente nel 2011 (L’enfant rieur) e nel 2013 (Chemin sous la neige) e da noi ancora inediti. Ancora una volta Bauchau mette qui l’accento sull’esigenza di accettare e trasformare la lacerazione originaria in una pulsione, anche perché non si può impedire, in termini freudiani, il ritorno, prima o poi, del rimosso. Integrarsi in una comunità non necessariamente prossima a quella di partenza, che sarà l’individuo a dover scegliere consapevolmente, diventa così il compito principale, la condizione da soddisfare per vivere un’esistenza soddisfacente.

Nella concezione di Bauchau la vita sembra essere stata una breve, fortunata parentesi fra due stati di non-essere. In un appunto diaristico del 22 gennaio 2006, questo scrittore, che negli anni ha frequentato ed è stato l’interlocutore (fra gli altri) di Camus, Jünger, Gracq e Blanchot, scriveva: “J’accepte la fin de tout, liée à la mort du corps, les regrets ne consistent que dans l’inachèvement de ce qu’on a accompli. L’espérance d’un après la mort ne doit pas être rejetée quand elle existe, mais elle n’est que du ressort de l’intuition. J’espère et j’attends, comme le petit garçon qui s’est installé à la place du père dans le lit maternel. J’attends d’être remis tendrement dans mon propre lit.” [Accetto la fine di tutto, legata alla morte del corpo, e i rimpianti non riguardano che l’incompiutezza di quanto si è fatto. La speranza di un dopo la morte non deve essere respinta quando esiste, ma rientra nel solo ambito dell’intuizione. Spero e attendo, come il bambino che ha preso il posto del padre nel letto materno. Attendo di essere rimesso dolcemente nel mio letto.]

Un letto che lo accoglierà in via definitiva quattro mesi esatti prima del centesimo compleanno, lasciando tuttavia aperte tutte le questioni profonde e forse insanabili che lo hanno agitato e che ne hanno contrassegnato l’opera.

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