Flavio Fusi
Cronache infedeli

Gli 11 settembre

L'11 settembre è una data cardine della nostra identità. Ma, da Santiago del Cile a New York, la storia non è strumento di vendetta. Le colpe degli Usa in Cile non c'entrano nulla con quelle di Bin Laden. Né con quelle di Putin

Bisogna scavare a fondo nel passato, per ritrovare quei giorni di settembre a New York davanti alle Torri ridotte in polvere, con il vento caldo delle esplosioni che spazzava l’East River: ma non era ieri, appena il nostro ieri di spettatori sgomenti davanti alla fossa fumante scavata dentro il cuore della metropoli?  E più a fondo – fin nelle viscere della storia – bisogna scavare per ritrovare quei nostri giorni del settembre a Santiago del Cile: impietriti, piangenti di rabbia, davanti agli schermi televisivi che mostravano il tradimento, il sacrificio e la fine di un sogno generoso. 

Insieme, queste due date fanno parte di me. Per meglio dire: in quello che sono oggi e che sono diventato nei decenni, c’è indissolubile l’impronta dell’11 settembre di Santiago e di New York. Non sarei io, non saremmo noi, senza questi eventi così sideralmente lontani, così radicalmente diversi e tuttavia così intimamente vicini. Di più: la mia intera generazione si è formata anche con questo: insieme alla vergogna del Vietnam, insieme al campo festoso di Woodstock, insieme alla primavera di Praga, insieme al sogno di Cuba, insieme alla strage di Bologna.

Fa così un certo effetto – allo stesso tempo straniante e penoso – il fatto che questa data bicefala sia diventata per molti, e tanti della mia generazione, terra di scontro e di vendetta postuma nel campo di battaglia virtuale dei moderni social.  In questa agorà affollata e rumorosa, l’11 settembre di Allende è rivendicato come il peccato originale dell’imperialismo nordamericano, mentre l’11 settembre di New York è derubricato come contrappasso teatrale e giusta punizione per gli innumerevoli crimini e le sofferenze imposte al pianeta in mezzo secolo di dominio dell’Occidente capitalistico.

La storia come vendetta naturalmente non è storia, ma una funerea mascherata, una commedia delle parti organizzata sul palcoscenico della propaganda con cartonati al posto dei reali protagonisti e una misera sceneggiatura scopiazzata dai manuali di propaganda del complottismo. Vanno in scena le antiche maschere della guerra fredda: il traditore Pinochet burattino inerte del complesso militar-industriale di Washington, il riformista Salvador Allende campione di una rivoluzione simil-comunista nel Cono sud latinoamericano, il cauto Corvalàn trasformato in un baffuto Che Guevara. A spanne, Santiago del Cile si sovrappone a L’Avana castrista e il governo dei socialisti cileni vale l’assemblea rivoluzionaria dei barbudos cubani.

All’appiattimento dell’analisi geopolitica segue di pari passo l’appiattimento del tempo. Il peccato originale non si cancella, i trenta anni che trascorrono tra i due 11 settembre sono superati di slancio e l’America di Nixon e Kissinger si sovrappone all’America di Bill Clinton e George Dabliu Bush. Infine: se la storia è sempre identica, la storia stessa è azzerata, e dunque il sanguinoso tributo di sangue delle Torri gemelle è il giusto contrappasso per il bombardamento del palazzo della Moneda. E Bin Laden è in fondo il vendicatore di Salvador Allende.

Sembra il gioco a due dell’antica guerra fredda: imperialismo versus comunismo, colonialismo versus patriottismo, metropoli versus campagne, capitalismo versus proletariato. In realtà – e a ben riflettere – il gioco di contrapposizione innescato dal meccanismo dei social nostrani non è così rudimentale come appare a prima vista. Le carte disposte servono in realtà tre giocatori, di cui uno si è appena seduto al tavolo verde. Scrive un anonimo: «Mi stavo chiedendo se dopo tanto tempo fossero state revocate agli Stati Uniti d’America le sanzioni per la fattiva partecipazione al golpe cileno, all’omicidio di Allende e a tutto quello che accadde dopo…».

La battuta sarcastica introduce il tema inedito delle sanzioni, e il riferimento alle sanzioni svela il terzo giocatore: la Russia di Putin e la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. È un gioco di specchi, elementare ma a suo modo ingegnoso. Si parla dell’11 settembre 1973, ma in realtà si ha in mente il 24 febbraio 2022, quando Mosca ha dato il via all’ operazione speciale.  E il messaggio è chiaro: Washington è come Mosca, perché mezzo secolo fa ha aggredito il Cile e ucciso Allende. Ma è peggio di Mosca, perché in tutti questi anni nessuno ha avuto la forza di imporre sanzioni contro Washington. Dunque il vero Satana di oggi non è il Cremlino di Putin, ma la sempre impunita Casa bianca di Biden, e le sanzioni dell’Occidente contro Putin sono ipocrite e sommamente ingiuste.

E la resistenza di Kiev, come trova posto in questo schema? Questa anomalia – insegnano fior di analisti da cattedra e da tastiera – si spiega agevolmente con il tema della proxy war, della “guerra per procura” ingaggiata tra America e Russia, con gli ucraini in mezzo, a far la parte degli utili idioti. Del resto, fino a ieri – e non solo sui social – si predicava l’inutilità della resistenza di fronte alla straripante potenza militare della Russia. Oggi che quella sconfitta non sembra così certa, appaiono commenti che accusano Kiev e Zelensky di «eccesso di difesa».

Così di tutto si parla, meno che degli 11 settembre. Ma la storia ridotta a schema complotto e vendetta è cosa vana. Possono essere il ricordo e la riflessione su eventi centrali della storia trascorsa, inquinati – davvero inquinati – dalle misere convenienze dell’oggi? La storia vera è immensamente più complessa, e tuttavia elementare nella nostra microscopica esperienza, negli anni che per ciascuno di noi diventano memoria. Nel settembre 1973 avevo venti anni e nei corridoi di un’antica Federazione del Pci, insieme a tanti ragazzi come me, aspettavo che il generale Prats – l’unico alto ufficiale rimasto fedele ad Allende – arrivasse con le sue truppe del nord a sgominare Pinochet e la sua corte di traditori. Carlos Prats non arrivò mai e un anno dopo fu ucciso in un attentato in Argentina, ma noi – anche se per un attimo – ci abbiamo voluto credere. Nel settembre del 2001 avevo cinquanta anni e nel caos della città impazzita potevo quasi sporgermi sul cratere annerito dell’esplosione e del collasso dei due giganti di acciaio e cemento. Il poco futuro che allora potevo vedere era spalancato sul nulla come quel cratere. Il conto dei morti era appena iniziato e una ragazza in lacrime gridava davanti a me: «cercate mio fratello, stava nelle seconda torre, si chiama Alejandro».

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