Stefano Casi
A Teatri di Vita di Bologna

Un teatro politico

Alla vigilia delle elezioni, Andrea Adriatico ha organizzato un confronto “spettacolare” tra politici e attori: un esperimento nuovo (e molto particolare) per portare in scena i conflitti e le delusioni di due generazioni diverse. Ecco il racconto di quel che è successo

Se chi fa politica generalmente si occupa poco di cultura e ancor meno di teatro, allora mettiamo i politici direttamente in scena, magari cogliendo l’occasione di una campagna elettorale anomala e fulminea, offrendo non visibilità ma alterità. La scommessa è racchiusa nella formula misteriosa del titolo dello spettacolo di Andrea Adriatico XYZ. Dialoghi leggeri tra inutili generazioni, andato in scena a Teatri di Vita, a Bologna, solo per quattro sere, dal 20 al 23 settembre: scommessa teatrale e politica al tempo stesso, inedita sperimentazione di una Cosa, forse poco morettiana ma molto socratica. Ogni sera una squadra di 12 giovani attori tra i 19 e i 36 anni ha abitato lo spazio scenico, indossando magliette con il simbolo della propria generazione (Y per gli over 26, Z per i più giovani), e raccontandosi in rapidi botta-e-risposta, tutti rigorosamente improvvisati, e quindi diversi ogni sera, a proposito di passioni, avventure, aspirazioni, fallimenti, orientamenti. In mezzo a loro, un candidato o una candidata alle elezioni politiche, tredicesima pedina di un gioco corale che invita alla sincerità delle risposte e all’autenticità del comportamento. Molti candidati nelle liste bolognesi sono stati invitati, molti non hanno neanche risposto all’invito, quattro hanno accettato: Marco Lombardo (Azione/Iv), Stefania Ascari (5Stelle), Dalila Ansaloni (FdI), Giovanni Paglia (SI/Verdi).

Dopo un prologo storico semiserio di Patrizia Bernardi, unica attrice e unica rappresentante della generazione X, nonché arbitro discreto fuori scena, gli attori entrano uno ad uno introdotti con nome e cognome, età, città di nascita: il primo ha il compito di incalzare gli altri con domande le più disparate, che fanno emergere fulminanti squarci della vita dei ragazzi, quel che t’aspetti e quel che non t’aspetti. Una sorta di carotaggio antropologico in quelle generazioni, un Comizi d’amore shakerato e autogestito, un TikTok dal vivo dove in pochi secondi compaiono tracce di vite ancora in pieno slancio, e subito dopo stai già osservando altro. Poi, dalla platea viene chiamato il candidato, che entra a far parte di quel gioco, diventando parte di un coro con cui condivide l’appartenenza generazionale (i candidati hanno tra i 29 e i 42 anni). Dapprima il politico pare un corpo estraneo, ma in pochi secondi è risucchiato nel gruppo, di cui fanno parte Alessio Genchi, Andrea Ferrara, Davide Tortorelli, Giacomo Cremaschi, Innocenzo Capriuoli, Marco Celli, Michele Balducci (generazione Y), Andrea Baldoni, Andrea Mattei, Ludovico Cinalli, Massimo Giordani e Matteo Curseri (generazione Z): una compagine tutta maschile, in una omogeneità di genere che da un lato limita le potenzialità tematiche e relazionali, ma dall’altro crea una compattezza quasi cameratesca, come un corpo unico.

Le domande rimbalzano vivaci e veloci tra tutti i partecipanti, e così del candidato si scoprono attitudini culinarie, gusti sessuali, passioni vacanziere, pregi e difetti quotidiani, come in una normalissima chiacchierata tra amici. C’è anche tempo per un ballo, anzi due: e si vede subito che il ballo non è il forzato atteggiarsi dell’attempato deputato che finge giovanilismo, ma si esprime con una fisicità autentica, quasi liberatoria in queste ultime sere di campagna elettorale ingessata, incalzante e stressante. I ragazzi si scatenano nel ballo e i politici non sono da meno: il video che compare sullo sfondo con il famoso ballo del sindaco di Lecce Carlo Salvemini, che fu oggetto di dileggio per quel suo lasciarsi andare, raddoppia il senso gioioso e comunitario del ballo dei politici.

Poi, lo spettacolo si trasforma in una sorta di gioco della bandiera. Il cerimoniere invita a schierarsi in fila da una parte o dall’altra del palco in base ai criteri più disparati: chi ama la montagna di qua, chi il mare di là… e così via, a raffica, e sempre tutto improvvisato, con il tempo di qualche domanda di chiarimento a qualcuno dei ragazzi schierati e soprattutto al candidato sulle sue scelte… e allora, chi conosce più lingue, chi ha commesso un reato, chi indossa i boxer, chi paga il biglietto del bus… L’ultimo criterio introduce alla parte conclusiva: chi si è candidato alle elezioni da una parte, chi non si è candidato dall’altra.

Comincia così il pezzo politico vero e proprio. Il candidato non è più parte del coro, rimane al centro della scena, isolato, seduto su una poltrona portata appositamente. I ragazzi, raggruppati in piedi, lontani, si avvicendano al microfono e iniziano con le domande, qualcuna di curiosità personale, ma soprattutto su temi politici. Il candidato, entrato in scena all’inizio imbarazzato, poi subito sciolto nei dialoghi divertiti, nel ballo collettivo, nell’atmosfera generale che coinvolge un pubblico partecipe, magari anche con il fiatone per le corse da una parte all’altra del palco nell’ultimo gioco, adesso è quasi disarmato di fronte alle domande dei giovani attori, che incalzano con tutta la carica della curiosità individuale, a tratti anche naif, lontana dalle strategie dei giornalisti da talk televisivo. E il politico risponde, un po’ con simpatia un po’ con disagio, cercando la comunicazione più diretta o aiutandosi nei punti più delicati con quel pizzico di politichese che non può mancare, andando diretto alle risposta o perdendosi in nebulosi giri di parole. D’altra parte, la prossemica non aiuta, la situazione complessiva è anomala, lo sbalzo dallo scherzo condiviso durato oltre un’ora alla serietà degli argomenti è spiazzante. Ma per venti minuti ha la possibilità di spiegare a quei giovani il suo pensiero e le sue proposte.

Infine, il verdetto: chi lo voterebbe deve mettersi da una parte, chi non lo voterebbe dall’altra, gli indecisi nel mezzo. Non c’è mai unanimità, i ragazzi si distribuiscono equamente, e argomentano le ragioni del loro voto o non voto sulla base delle risposte che hanno ricevuto. Il politico non ha diritto di replica, e il cerimoniere chiude recitandogli una sua poesia, diversa ogni sera.

Cosa abbiamo visto? Forse la domanda giusta è: cosa abbiamo vissuto? Di certo, i giovani attori hanno vissuto un’esperienza unica, proprio come i politici, che dichiarano alla fine il loro sorpreso entusiasmo per una serata diversa. Diversa dal solito teatro, ma soprattutto diversa dal solito incontro politico: la politica sembra relegata ai margini, quasi devitalizzata, ma paradossalmente enfatizzata nel momento in cui il candidato è messo al centro in quanto “uno di noi” (“la storia siamo noi”, risuona il ritornello De Gregori all’inizio dello spettacolo), una persona che si stacca dalla comunità per chiedere di rappresentarla sulla base delle proprie proposte. Occorreva prima creare una condivisione comunitaria, per poi sancire il distacco – in qualche modo la solitudine – del candidato. Che è persona reale, una scheggia di realtà nella finzione del teatro (dove tuttavia anche gli attori sono persone reali che raccontano di sé), ma che è anche personaggio fra personaggi.

In una struttura drammaturgica inflessibile, ma senza alcun testo preparato precedentemente, ciò che è accaduto si è presentato coerentemente come una narrazione teatrale vera e propria, che risucchia nell’ambiguità sottile della rappresentazione la constatazione del trionfo della società dello spettacolo. E comunque, l’empatia generata dal candidato è forte, almeno nella maggior parte dei casi. La sua umanità emerge forse più nel linguaggio del corpo che nelle parole, ovvero nell’impaccio della posizione, nell’indietraggiare o oscillare impercettibilmente, così come nello scatenarsi nel ballo battendo le mani con gli altri, come una crew all’angolo di una strada. Chissà se diventeranno deputati o senatori, ma per una sera sono stati Marco, Stefania, Dalila e Giovanni, personaggi della commedia umana dell’anno 2022.

Così sembra viverli il pubblico, di volta in volta incuriosito, sorpreso, divertito anche con sonore risate, forse più convinto e coinvolto dalla carica sprigionata dai 12 ragazzi, ma pur sempre attento alle parole del politico. Probabilmente nessun candidato, a cui era stato detto precedentemente soltanto che sarebbe entrato in un gioco, ha messo in conto di conquistare voti, semmai di affrontare una sfida stralunata con sé stesso, fuori dalle pressioni della campagna elettorale, anche se forse qualche spettatore e qualche giovane attore avrà risolto in queste sere il problema di trovare qualcuno a cui affidare la propria scelta. D’altra parte, il teatro non funziona così. Anche quando incontra direttamente e imprevedibilmente la politica, come in XYZ. Uno spettacolo profondamente politico grazie alla sua squisita teatralità. Perché il teatro è politico non in quanto fa politica, ma in quanto fa teatro.

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