Attilio Del Giudice
Un racconto (quasi) "giallo"

Paco, il killer

«Negli approcci contrattuali concludeva sempre con le stesse parole: ”Prendere o lasciare, voi rischiate i soldi, io rischio la vita”»

Paco nel suo campo era il migliore. Un artista, s’era detto. Il suo campo, la professione che sin da ragazzo aveva esercitato con indiscutilbile successo, era l’assassinio. Non per sé, per i fatti della sua vita, che anzi per sé non avrebbe ucciso una mosca, ma per altrui committenza. Circostanza questa che sembra proporre una particolare prospettiva morale: ”I soldati in guerra – pensava Paco – non ammazzano per conto di altri? Di qualcuno che ripaga con le quattro chiacchiere incomprensibili sulla patria, la fede, la giustizia sociale, la democrazia, il bene comune e così via?” Paco, invece, privilegiava rapporti semplici e concreti. Svolgeva analoghe operazioni, ma per danaro. Il danaro può essere usato in svariati modi, ma è pur sempre indice di chiarezza, conduce subito al sodo, senza ipocrisie e genera rispetto e stima.

Paco era consapevole di aver raggiunto un grado di alta professionalità, sia per il talento e, per così dire, l’attenzione metodologica nella fase progettuale, sia per la determinazione nella fase esecutiva vera e propria, per questo poteva permettersi di chiedere compensi assai elevati, in moneta pregiata, in banconote di piccolo taglio e naturalmente in anticipo. Negli approcci contrattuali concludeva sempre con le stesse parole: ”Prendere o lasciare, voi rischiate i soldi, io rischio la vita”.

La parola killer non gli piaceva. Gli ricordava i film americani, dove riteneva che la realtà fosse deformata e dove quei personaggi vengono rappresentati con facce patibolari e, alla fine, sempre scoperti e condannati.

Non gli piaceva sua madre. La ricordava poco, ma di lei aveva visto una fotografia. Non gli piaceva quello che aveva fatto venticinque anni prima, abbandonando lui bambino e quel bambinone di suo padre per tornarsene in america a smaltire una vivace maturità, desiderosa di trovare le proprie radici, come aveva scritto in un bigliettino, ma, in realtà, desiderosa di cazzi portoricani a buon mercato.

Ramon, Il papà di Paco, era stato un famoso banderillero, quando volle spiccare il gran salto e fare l’espada, fu un disastro. Quarantacinque giorni in un oaspedale a Saragoza, fra la vita e la morte, gli avevano fatto capire che la vita può essere bella anche senza l’applauso delle folle e che fosse opportuno passare ad altro per campare. La cosa che gli venne facile fu l’eros mercenario. Lo praticò per un paio d’anni con alterna fortuna, finché trovò questa americana, ancora giovane abbastanza ricca e decisa a prendere marito. Si stabilirono in Italia, a Sorrento, dove lei possedeva una villa e lì nacque Paco.

Paco poteva avere tre o quattro anni quando la madre se ne andò. Il padre già da tre o quattro anni aveva cominciato a bere forte ed era diventato quasi impotente e anche un po’ matto. Gridava che lui era un uomo d’onore e doveva tornare a toreare e, per allenarsi, pretese che la moglie facesse il toro, spingendo una sedia con due coltelli legati alla spalliera. L’americana fece il toro per un paio di mesi, poi si stancò e siccome Ramon era diventato cattivo e la chiamava troia e picchiava la testa contro il muro dicendo che si voleva ammazzare e piangeva continuamente, decise, come si è detto, di lasciare marito e figlio e tornarsene in America. Il bambino, al contrario del padre, non piangeva mai, non parlava nemmeno e si pensò che fosse ritardato.

Insomma a Paco dell’America non gli piaceva niente, neppure la Coca Cola o, per essere più precisi, dell’America gli piaceva una sola cosa: la moneta, il dollaro. Sì, il dollaro gli piaceva anche fisicamente. Gli piaceva il colore, la carta, il taglio non troppo grande, né troppo piccolo, giusto a significarne l’importanza, il prestigio. E di dollari Paco col suo lavoro ne aveva guadagnati molti, anche se ne ne spendeva pochi. Con le donne era parsimonioso e preferiva ricevere regali più che farne. Né si abbandonava, sconsideraamente, ad altri piaceri della vita. Aveva, però, spiccatissimo il gusto estetico e, forse, il senso dell’Arte, della grande Arte. Per esempio, era fortemente innamorato della pittura del Rinascimento italiano e, in particolare, di Raffaello. Ecco, per un Raffaello, avrebbe speso qualunque somma. Possedeva una piccola madonna attribuita da alcuni al maestro, ma certamente di buona scuola raffaellesca e ne era assai orgoglioso. Una volta progettò di rubare la Madonna del cardellino agli uffizi. Aveva preparato un piano complesso, ma niente male, però non lo eseguì. Intravide una serie di difficoltà e si fece persuaso che uno debba fare solo quello che sa fare bene.

Paco aveva poca dimestichezza con i ladri e raramente s’era parlato di lui nel giro della malavita. Qualche volta s’era fatto il suo nome con grande ammirazione nella cerchia ristretta degli esecutori professionisti. Faceva il suo lavoro da solo e sempre lontano dai suoi domicili abituali. Veniva generalmente contattato per omicidi politici o dell’alta finanza. Costava troppo per altri ambienti.

Paco era quello che si dice un gran bel giovane. Bruno come il padre e con gli occhi chiari della madre. Alto, elastico, ben modellato. Non era cinico o, almeno, non lo era come la gente crede debba essere un killer. Aveva rispetto per ogni identità umana. Quando, però, assumeva l’incarico di uccidere, la vittima designata veniva da lui considerata niente di più che un bersaglio. In pratica la sua psicologia escludeva ogni inferenza sentimentale e questo meccanismo col tempo s’era fatto così netto e preciso da conferirgli una straordinaria freddezza e lucidità.

Paco conobbe Mariuzza, una bimbetta di sette anni e se ne innamorò. E Mariuzza si innamorò di Paco.

Vide la bambina, la prima volta, seduta su uno sgabello, accanto alla madre, composta e assorta, tra cappotti e pellicce, durante l’intervallo tra il primo e il secondo atto di Re Lear. Assunta, la mamma di Mariuzza, in quel teatro, faceva la guardarobiera. Come tutte le ragazze madri, Assunta diffidava del sesso forte, ma di Paco ebbe una fiducia incondizionata sin dal primo momento. Lei di gran signori ne aveva visti tanti nel teatro, ma mai nessuno così bello ed elegante.

Paco raccontò d’essere vedovo e d’aver perduto la moglie e la figlioletta durante il parto e gli sarebbe tanto piaciuto avere una figlia come Mariuzza. Assunta stava per dirgli: “perché non proviamo a farne una insieme?” Ma quell’aspetto nobile e quello sguardo spirituale la inibirono e si sentì meschina. In verità glielo disse con gli occhi e Paco capì, ma a lui interessava inderogabilmente quella biondina straordinaria, seria seria, che assomigliava alla Madonna del cardellino. Paco mentiva solo quando era strettamente necessario ed era strettamente necessario conquistare la fiducia della madre per legare a sé la bambina. La storia della vedovanza e della frustrata paternità, il rolex tutto d’oro e la voce calda del giovane, astutamente costruita secondo i moduli cinematografici della dolcezza virile, funzionarono come un fucile di precisione e colpirono l’ingenua fantasia di Assunta. Questa accanita lettrice di edificanti romanzetti sentimentali arrivò a credere in una inversione di marcia della grama esistenza sua e della sua Mariuzza. Un cambiamento radicale, che si sarebbe verificato di lì a poco, attraverso l’appoggio disinteressato dell’uomo importante e misterioso.

Paco veniva a prendere Mariuzza, ogni giovedì, durante le rappresentazioni pomeridiane. Andavano a piedi al parco o in macchina a uno chalet, che lui possedeva in riva al mare, a qualche chilometro dalla città.

Mariuzza del sesso sapeva poco, Paco sapeva e non aveva pregiudizi, in effetti desiderava fisicamente la bambina. Ma come tutti i tiratori scelti aveva una buona visualizzazione spaziale e si rendeva conto che le proporzioni non erano quelle giuste e la penetrazione sarebbe stata dolorosa per la piccola, meglio insegnare a Mariuzza altre pratiche erotiche più dolci. Mariuzza ne fu entusiasta e raccontò che, una volta, si era nascosta in uno sgabuzzino, per fare uno scherzo alla madre e l’aveva vista fare la stessa cosa al direttore del teatro.

“Ecco, vedi- disse Paco – i grandi possono fare questi giochi tra loro, ma non possono farli con le bambine. Se vengono scoperti, vengono subito arrestati e portati in una prigione fredda e buia, sotto terra, dove muoiono di fame e di sete. Tu vuoi che io muoia di fame e di sete in una prigione fredda e buia?” “No, no!- Disse la bambina quasi piangendo. “allora – Aggiunse Paco – non devi parlare a nessuno dei nostri giochi, nemmeno alla mamma, Hai capito? È un segreto tra noi”.

“Ma prché – chiese Mariuzza – i grandi non possono fare queste cose con le bambine?” Paco non seppe trovare una risposta. “ Non lo so, ti giuro che non lo so.”

Gli adulti che hanno rapporti fisici con i bambini, anche se recidivi, dopo il piacere, sentono rimorso e hanno una grande paura di essere scoperti. Taluni hanno un terrore folle del male che si annida nel loro animo e seviziano i bambini e talvolta li uccidono, volendo punire la loro colpa profusa su quei corpicini innocenti. Niente di tutto questo per Paco. Paco aveva sempre pensato che tra amore sessuale e amore spirituale non ci fosse differenza, ma nei suoi tanti trascorsi amorosi non aveva mai avuto un’esperienza così piena e persuasiva. La contemplazione estetica del volto angelicato di Mariuzza gli dava una grande gioia e un benessere fisico mai provati prima. Le pratiche erotiche lo conducevano a un’estasi sublime di natura quasi sacrale. Insomma Paco con questa Mariuzza era felice e lo sarebbe stato chissà ancora per quanto tempo, se non fosse incappato in un incidente.

In quella città era conosciuto come un ricco mercante d’arte. Ci veniva una o due volte al mese e alloggiava in una suite al Grand Hotel. Qualche volta frequentava il poligono di tiro per tenersi in allenamento. Allo chalet ci andava solo per poche ore e solo quando doveva studiare un piano per il suo lavoro. Ma da quando aveva conosciuto Mariuzza, veniva più spesso e più spesso andava con la bambina allo chalet in riva al mare.

Dovevano averli spiati e dovevano aver visto, perché un giovedì ventoso alla fine di marzo, Paco al teatro non trovò la bambina. La donna delle pulizie disse che la signora Assunta non era potuta venire, ma che aveva bisogno urgente di parlargli. Paco andò per la prima volta a casa di Mariuzza, ma Mariuzza non c’era. Dopo la scuola era scomparsa, la mamma l’aveva disperatamente cercata in tutta la città. Ora singhiozzava forte sul petto di Paco. Paco le accarezzò i capelli e in un baleno capì tutto.

“Assunta, mi ascolti! Mariuzza è stata rapita. Evidentemente vogliono i miei soldi e li avranno, perché io voglio bene a Mariuzza più che a una figlia. Però lei deve fare esattamente quello che le dico!  Telefoni al teatro e faccia sapere che è in procinto di partire per Campobasso, perché suo padre è gravemente ammalato: invece resti in casa, ma non apra a nessuno e per nessun motivo. Non risponda al telefono! Io ho uno chalet a tre chilometri, conosceranno quel recapito e stia certa che tefoleranno a me. Per tenerla informata, verrò io personalmente qui, nelle ore notturne. Mi dia le chiavi di casa!”

Gli accadimenti successivi si svolsero secondo i consueti rituali. Telefonarono il giorno dopo: “Mariuzza è nelle nostre mani e sta bene…” “Quanto volete?“ interruppe Paco.

 “Questo lo saprà quanto prima, sempre che lei o la madre non facciate scherzi.”

La seconda telefonata, Paco la ricevette dopo quarantasei ore. Volevano cinque miliardi di lire, ma in dollari e in banconote di piccolo taglio “Di quanto tempo ha bisogno per preparare la somma?”.

Poche persone al mondo avrebbero potuto preparare subito una somma di danaro così ingente e in banconote di piccolo taglio. Ma per Paco era possibile. Valutò, all’istante, che non gli conveniva prendere tempo, perché il rischio che Assunta si confidasse con qualcuno o si rivolgesse alla polizia, si era fatto alto.

“Posso preparare il danaro oggi stesso” Disse Paco.

“Va bene. Si faccia trovare alle ventitré nella piazzola di parcheggio successiva all’ottasettesimo chilometro della Casilina.”

Forse la sollecita disponibilità di Paco a consegnare subito l’intera somma dovette insospettirli, certo è che nella piazziola di parcheggio successiva all’ottantasettesimo chilometro della Casilina, non venne nessuno. A mezzanotte venne la polizia stradale. “Le è successo qualcosa?” “No, grazie, avevo mal di testa e mi sono fermato, ora sto meglio” “Ha fatto bene. Dove è diretto?” “ A Cassino.” “Favorisca libretto e patente!”

Paco per quello si sentiva tranquillo. I documenti falsi erano l’abici nel suo mestiere. Per il resto provava, forse per la prima volta, una strana inquietudine.

Otto giorni dopo, in una luninosa mattinata d’aprile, in una discarica alla periferia della città, fu rinvenuto il corpo di Mariuzza, la bambina che assomigliava alla madonna del cardellino, ma in uno stato avanzato di decomposizione.

Anche in quella circostanza Paco non pianse, ma gli occhi si fecero azzurri azzurri.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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