Alberto Fraccacreta
“Peste e guerra” di Paolo Fabrizio Iacuzzi

Il rito della Poesia

Il cuore dei versi dell’autore pistoiese, in cui ricorrono ripetizioni e anafore, è nella lotta degli opposti «che si toccano fino a trovare un’insperata unità nella divergenza». Come testimonia l’antologia che ripercorre la sua poesia nell’arco di quarant’anni. Con un dialogo a cura di Michele Bordoni

Peste e guerra. La poesia non salverà la vita di Paolo Fabrizio Iacuzzi (introduzione e dialogo a cura di Michele Bordoni, Interno Poesia Editore, 292 pagine, 18,00 euro) è un’antologia che ripercorre la densa attività lirica dell’autore pistoiese nell’arco di un quarantennio (1982-2022). L’itinerario procede da Magnificat (1996) a Consegnati al silenzio (2019) e Sospeso Respiro. Poesie di pandemia (2020), con l’inserzione di qualche significativo inedito come Tribunale delle Ortensie, posto a mo’ di prologo – risalente appunto all’inizio degli anni Ottanta –, e l’intenso epilogo, Palinuro Mariupol che fa riferimento alla guerra in Ucraina: «Palinuro l’amico d’infanzia. Trasfuso in noi / per virus nasale. Se il nocchiero per teatro / si cela dentro un anagramma. Per questo / nuovo esodo col grande caduto insepolto. // Fosse comuni e lapidi non scritte. Mai erette / nella terra nuda. Grigioverde senza le toppe / di colore. Taras Bulba tornato dopo la peste / per il tempo dell’Apocalisse». 

Il cuore dei versi di Iacuzzi è ravvisabile nel concetto eracliteo di pólemos: cioè nella pervicace lotta degli opposti, nelle contrapposizioni che antinomicamente si toccano fino a fondersi, fino a trovare un’insperata unità nella divergenza. Come osserva il poeta a proposito di Magnificat nell’appassionante dialogo con Bordoni, «questo canto del Magnificat, della Vergine, che è un canto mistico, di ringraziamento, di lode, in realtà viene inserito all’interno di una sorta di rovescio di sé stesso, perché credo che in me la parola alta, la parola mistica, sacra, abbia sempre un rovesciamento nell’aspetto parodico del linguaggio. Questa cosa, come direbbe Bachtin, è poi l’essenza del carnevalesco, del riso, del comico e, fin dal mio primo libro, si traduce nell’idea dell’epica quasi picaresca che mette in scena la “verità” dei vinti e degli ultimi». Lo sguardo rivolto ai più deboli prende corpo, ad esempio, nel Coro di migranti o in Il passo degli sfollati, ma la tensione gnoseologica fondamentale della poesia di Iacuzzi possiede sempre una sfumatura metafisica, per cui la reale risoluzione delle diversità sociali è possibile soltanto nell’eschaton, nei tempi ultimi. Metafisico e a tratti surrealistico è il linguaggio che, ancora, cresce sul contrasto e sulla diffrazione: come ricorda nuovamente Iacuzzi, «non c’è nessuna ispirazione che non nasca dalla parola, dalla differenza di parole, da questa fessura che a un certo punto di apre con uno squarcio» (emblematico è il caso del lapsus e del jeu de mots in Germania-Germinaia e «Vajont-Vaioni»). 

Segnato profondamente da letture icastiche e necessarie – la lezione di Bigongiari e Luzi, la mitologia greca, la tradizione iconologica e la filosofia occidentale, il cinema di Tarkovskij, Frankenstein, la Toscana della rinascenza –, il pensiero poetante di Iacuzzi, che si traduce empiricamente in versi lunghi, caratterizzati da ipotassi, punti fermi e fitti enjambement, aggrega su di sé «cornici concentriche» tese a inquadrare il «parlamento d’amore». In questo amalgama di identità e sparizioni familiari non avare di nomi propri, in cui troneggiano il Padre e la Madre, nel riannodarsi dei temi d’attualità attraversati dalla «bicicletta Bianca» – la guerra di Bosnia e quella ucraina, l’Aids e il Covid-19, tutte le discriminazioni in atto – emerge timidamente ma nitidamente il Christus patiens, figura insuperabile di abnegazione e difesa dell’alterità, nell’idea liturgica di una poesia che «corrisponda all’esecuzione di un rito, anche nelle sue formule di ripetizione, di anafora».

*

Magnificat

Il ponte di Mostar avanza

nelle macerie di questo azzurro.

Illumina. Prende la tazza

di caffè freddo nel frigo.

Mattina dopo mattina.

Con la paletta rossa piantata

nella polvere nera. Con la polvere

acerba di questi morti io

mi copro. Attenti alla storia

di fanti che scattano attenti

come angeli legati 

a questo ponte di carne.

Da una sponda all’altra del pube

galleggiano morti.

Un fiume di desiderio li porta qui.

Abbracciaci tutti.

Tazza della spirale accesa

dalla vergogna. Io si leva qui

tra vestiti e bianchi

corsetti. Guardo meglio

di te che spari in questa

tivù accesa mentre

mi scaldi.

Paolo Fabrizio Iacuzzi

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