Nicola Fano
Verso le elezioni

Draghi e Shakespeare

"Giulio Cesare" di Shakespeare può essere un ottimo strumento per capire il senso della nostra penosa campagna elettorale. Tra promesse impossibili e regalie di Stato. Ma in quella tragedia c'è anche la parabola della popolarità di Mario Draghi

Giulio Cesare di Shakespeare è una specie di miniera di meraviglie: espone al pubblico considerazioni e situazioni che spesso tornano d’attualità quando meno te lo aspetti. Shakespeare scrisse questa tragedia romana (che spesso ricalca perfettamente la vita di Cesare di Plutarco) nel 1599 e fece di Bruto – il protagonista – quasi una palestra di Amleto, il personaggio che creò solo un anno dopo. Ma, a differenza della tragedia del principe di Danimarca, dove il conflitto tra volontà e destino è assoluto protagonista della vicenda, nel Giulio Cesare entra in ballo anche la politica. La politica in senso stretto.

Se, dal un lato, Bruto si chiede come conciliare il corpo di Cesare con lo spirito di Cesare («Ah, se potessimo uccidere solo lo spirito di Cesare!»), dall’altro i due congiurati, Bruto e Cassio, falliscono la loro rivoluzione per scarsa adesione alla pancia del popolo. Bruto, che nella realtà storica era un banchiere, ossia un usuraio, nella versione shakespeariana è un intellettuale (un filosofo, alla maniera di Amleto): ma non ha buoni strumenti per andare incontro alla volontà del popolo. Proprio il “popolo”, infatti, rappresenta il fulcro politico della tragedia: chi non lo accarezza, ossia chi insegue solo l’etica del buon governo – come Bruto –, finirà per essere spazzato via dal popolo.

Questa considerazione che Shakespeare ripete spesso nel canone (pensate a Macbeth, a Misura per misura… a tutti quei testi dove la corruzione la fa da padrone) trova la sua celebrazione più alta nelle due orazioni funebri sul corpo di Cesare. Prima, Bruto viene acclamato dal popolo romano quando dice che Cesare era ambizioso e che, in quanto tale, metteva a repentaglio la centralità etica del modello repubblicano romano; poi Marc’Antonio ribalta gli umori dei cittadini convincendoli che nessuno come Cesare li avrebbe mai più arricchiti e amati e che, dunque, i cospiratori erano da condannare.

L’orazione di Marc’Antonio è un mirabile, meraviglioso esempio di eloquenza populista. Pare un comizio di questi farabutti di casa nostra i quali da decenni, oramai, cincischiano con i bisogni degli italiani. Il luogotenente di Cesare finge di blandire Bruto e i congiurati per poi scaldare gli animi del popolo mostrando il cosiddetto testamento di Cesare: «A ogni cittadino romano… a ogni singolo cittadino lascio settantacinque dracme! A tutti lascio i miei parchi, i pergolati, gli orti appena piantati su questa riva del Tevere: li lascio a voi e ai vostri eredi per sempre: luoghi di svago per tutti, in cui passeggiare e ricrearsi. Questo era un Cesare! Quando ne verrà un altro?». È come promettere oggi la flat tax o l’azzeramento dell’Iva sui beni essenziali: una cazzata. Ma una cazzata detta in modo convincente, tanto da spostare l’attenzione dell’uditorio dalla complessità del problema (le difficoltà economiche dei più) alla facilità della soluzione (lo Stato regala soldi a tutti). Salvo che la soluzione in questione è irrealizzabile. Anche perché, come è noto, non esistono soluzioni facili a problemi complessi: verità millenaria che il populismo, per la sua stessa essenza, nega.

Foto Ansa

Orbene, Giulio Cesare ha anche qualcosa di più preciso da dire, a proposito della nostra penosa campagna elettorale. Rileggiamo la prima scena: due tribuni assistono alle celebrazioni in onore di Giulio Cesare che avvengono proprio accanto alla statua di Pompeo, ossia colui che, prima di Cesare, era acclamato governante di Roma e che proprio Cesare poi ha battuto al culmine di una guerra civile che vedeva di fronte i repubblicani (guidati da Pompeo) e i cesariani che dello Stato avevano una concezione un po’ più lasca…

Al culmine della scena, Marullo, uno dei due tribuni della gleba, dice questa lunga e amara battuta ai cittadini che plaudono a Cesare sotto alla statua di Pompeo: «Ma, insomma, Pompeo, sciocchi cuori di pietra, macigni più della materia inerte, figli degeneri di questa Roma… Pompeo l’avete già dimenticato? Quante volte vi siete arrampicati sulle mura, sul sommo degli spalti, sulle torri, sui vani di finestre e perfino sull’alto di comignoli, coi vostri figli in braccio, e lì seduti in attesa paziente siete rimasti pure un giorno intero pur di veder passare il gran Pompeo per le strade di Roma? E quante volte, visto spuntar da lontano il suo carro, avete alzato tutti insieme un urlo, e così forte che lo stesso Tevere s’è visto fremere tutto nel suo letto al sentir risuonare tra le sue sponde l’eco dei vostri clamori? Ed ora vi agghindate tutti a festa, e vi prendete un giorno di vacanza, e cospargete di fiori il cammino di chi vuol celebrare il suo trionfo sul sangue di Pompeo?… Tornate a casa! E pregate in ginocchio i sommi dèi che vogliano stornar dal vostro capo la peste che dovrebbe ricadervi per tanta vostra bieca ingratitudine».

Ingratitudine, ecco la parola chiave di questa battuta. Un sentimento che però diventa tale sulla spinta dell’ignoranza: Pompeo batteva il ferro della repubblica, della distribuzione orizzontale dei poteri, mentre ora Cesare punta ad accentrare il potere su di sé (e Bruto proprio perché era ambizioso lo uccide).

Vi ricorda niente di attuale, questa scena? Non vi ricorda, per esempio, la rincorsa degli italiani – ora – sul carro dei prossimi vincitori, quelli che hanno appena defenestrato Mario Draghi (o l’hanno apertamente combattuto, come la premier in pectore Meloni)? Gli stessi italiani (sondaggi alla mano), però, avevano appena dichiarato Mario Draghi il leader politico loro preferito. E che dire dei capi di partito i quali, dopo aver affondato il governo Draghi, ora pretendono che sia proprio quell’esecutivo, nell’esercizio provvisorio delle sue funzioni, a sottoscrivere un debito (lo chiamano ipocritamente “scostamento di bilancio”) che peserebbe per anni sulle spalle dei nostri figli e farebbe perdere la faccia all’Italia con l’Unione Europea? D’altra parte, quella faccia loro stessi, i leader in procinto di governare nuovamente questo disgraziato Paese, l’hanno già persa nel 2011: molti se ne sono dimenticati… E che dire, infine, dei ragazzi (ragazzi?) di Comunione e liberazione che nei giorni scorsi hanno tributato un omaggio quasi eccessivo a Mario Draghi ma che gioiosamente il prossimo 25 settembre, con ogni probabilità, nel segreto delle urne metteranno la loro croce su Meloni o Salvini o, peggio, sulla faccia tumefatta dalle menzogne di Berlusconi? Così siamo fatti, noi altri italiani: servi perenni. Ignoranti e servi. Shakespeare così dipinse i romani dell’epoca di Pompeo e Cesare, e così siamo rimasti. Servi pronti a cambiare bandiera e casacca appena possibile. Come i romani di Shakespeare: «Proviamone uno nuovo, magari ci regalerà orti e giardini»…

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