Daniela Matronola
Venerdì sera la presentazione a Roma

Universo Pasolini

L'anno del centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini si arricchisce di un numero speciale della rivista "Achab": molti critici si misurano con l'enigma multiforme di uno scrittore che ha anticipato il tempo e la vita con parole e immagini

Il centenario della nascita caduto già il 5 marzo scorso richiama la necessità che ognuno di noi faccia i propri personali conti con Pier Paolo Pasolini. Anzi qualcuno, ribaltando la questione, ha lamentato che già a metà dell’anno siano fioccate e ricorrano celebrazioni e pubblicazioni proprio per onorare i cent’anni dalla nascita del poeta/regista/polemista con un eccesso di omaggi e di sperticate lodi, obiettando anche che nel caso di PPP forse onorarlo così abbondantemente in questa ricorrenza, invece di aspettare almeno che passino cent’anni dalla morte, sia come minimo azzardato o incauto.

Tra i tributi a PPP registriamo il numero monografico di Achab (rivista diretta da Nando Vitali, coordinata da Giuliana Vitali, edita da Ad Est Dell’Equatore), uscito proprio a marzo scorso – poco più di trenta autori vi hanno lasciato traccia del proprio legame ineludibile con Pasolini: gigante della cultura, nonostante fosse fisicamente un piccoletto; presenza statuaria e autorevole nella poesia  nel cinema nella letteratura nel teatro nel docufilm e nel giornalismo polemico e civile, sulla carta stampata come in televisione, nonostante fosse atleta scattante e mobile, e calciatore inarrestabile nelle partitelle indiavolate giocate coi suoi alunni (è stato brevemente professore di Lettere alle scuole medie).

Il confronto che ognuno qui intrattiene con lui, privo del contatto diretto per ragioni anagrafiche salvo forse per un paio di loro, è inaggirabile, lo dicevo, però, leggendo i contributi, è desiderato, accolto come invito al quale non ci si può e non ci si vuole sottrarre.

Questo però non risolve una questione di fondo.

E anche leggendo i numerosi testi che in questo anno pasoliniano via via stanno venendo fuori, la questione di fondo inevitabilmente emerge. Chiederete: ma qual è questa benedetta questione di fondo? C’è una risposta larga all’appuntamento con Pasolini dettata dalla circostanza.

Per molti si tratta di legame profondo. Penso al libro di Renzo Paris che racconta l’amicizia e sodalità artistica tra due scrittori che più diversi non si può immaginare, cioè Pasolini e Moravia, Due volti dello scandalo (Einaudi), e Renzo Paris c’era. E penso a Caro Pier Paolo (Neri Pozza) in cui Dacia Maraini scrive al dolce amico una serie di lettere postume e rievoca la condivisione con Pasolini di viaggi e sopralluoghi per film e reportages, presente naturalmente anche Moravia, e il modo di viaggiare di loro tre fuori dalle piste turistiche, oltre a evocare un dettaglio toccante, il rumore dei tacchi degli stivaletti à la gaucho che erano la calzatura favorita da Pasolini, rumore che la Maraini dice di aver sentito distintamente una notte, tra veglia e sonno, dopo poco che PPP era stato ucciso. Penso anche al pittore film-maker e scrittore Attilio Del Giudice che andò a spiare il poeta-regista a Caserta Vecchia mentre girava il Decameron e che Pasolini aveva apprezzato nel 1964 alla Feltrinelli romana di via del Babuino (la prima ad aprire, e anche a chiudere, ormai qualche anno fa) in una mostra di pittori d’avanguardia: Pasolini scelse una sua serigrafia, icona laica utilizzata in Teorema (1968), che fu prima film e solo dopo romanzo.

Questi sono testimoni viventi del periodo in cui Pasolini ha agito, non gli unici ma tra gli ultimi.

La questione di fondo è che Pasolini provoca attaccamento e fedeltà o critiche infernali e veleni, destati tutti dalla sua persona. Non solo dal letterato e dal polemista. Non solo dal vorace lettore di De Martino, e indagatore da antropologo dei nuovi fenomeni sociali e della progressiva invasione della dimensione pubblica nell’alveo privato di ognuno, in una accelerazione attivatasi nel secondo dopoguerra: è il Pasolini osservatore e testimone della trasformazione, di segno evolutivo per un verso e involutivo per l’altro, dello stesso concetto di cittadinanza, esplosa appunto nel dopoguerra con l’apertura delle grandi città a sciami di nuovi abitanti in seguito all’incalzante industrializzazione del Paese, e con il sorgere di periferie disordinate che hanno modificato il tessuto stesso delle città grandi e piccole. È stato progresso o sviluppo? È stata corsa all’arraffo di un benessere violento o cieca evoluzione in attesa di successivi assestamenti? Era una delle critiche poste da Pasolini.

Pasolini fu egli stesso un nuovo romano. E all’inizio, dopo un breve periodo presso uno zio in un appartamento nel centro storico, si stabilì con la madre, Susanna Colussi, a Rebibbia, in una casa in cui non c’era niente, una casa senza che nella formula richiama Arbasino ma somiglia tanto alla casa molto carina senza soffitto e senza cucina cantata da Sergio Endrigo. Ora quella casa, è notizia recente, è stata acquistata dal produttore Valsecchi che l’ha donata al Comune di Roma. Anche la Torre di Chia (buen retiro di Pasolini), ce lo racconta proprio Giuliana Vitali che ha anche curato la redazione di questo numero monografico di Achab, è stata acquistata da un privato che però intende renderla disponibile ai visitatori.

Pasolini, nuovo romano, deve essersi riconosciuto proprio nelle fasce dei nuovi cittadini, approdate alla grande città con le loro identità fresche e indefinite, e con lingue e linguaggi in trasformazione dietro sollecitazione delle nuove situazioni condizioni occasioni: è nota l’attenzione di Pasolini alla questione linguistica non secondaria della corruzione del romanesco e alla sua mescidazione con le parlate materne dei nuovi romani in parlate spurie, staccate da una funzione di nominazione della realtà attendibile o comprensibile oppure espressiva: è nota la sua formulazione della cosiddetta “parlata centrale”, neo-lingua o non-lingua che è il risultato plurivoco di questo anomalo processo.

Questo numero monografico di Achab su Pasolini con lucidità affronta tutte le spinosità annidate nell’evocazione di PPP, anzi nella sua stessa figura. I tributi sono tutti ricchi di informazioni e di scelte inedite quanto allo sguardo riconoscente e insieme spassionato con cui ognuno si rivolge a Pasolini come a un intellettuale irripetibile, e infatti irripetuto, che si è gettato a corpo morto nella sua funzione, e condizione, essenziale, di Cassandra, consapevole che ai riceventi delle sue urgenti rivelazioni poco sarebbe importato dei contenuti, o che poco le avrebbero focalizzate, e molto di più si sarebbero concentrati sul fastidio di questa voce che insopprimibilmente li avrebbe costretti a fare i conti con tutta una serie di scottanti verità, soprattutto con un lavoro identificativo e interpretativo.

Pasolini ha agito e si è esposto come una Cassandra contemporanea (vi accenna Angelo Ferracuti nel suo contributo) con tutte le conseguenze che quel mito implica. Pasolini molto ha ragionato attorno al Mito e ai suoi archetipi, non in chiave psicoanalitica ma in chiave poetica e antropologica: facendo questo, sostiene nel suo contributo Filippo La Porta, Pasolini incorre in un saggismo à la Montaigne, privo però di ironia. Pasolini lo fa con una chiarezza di sguardo e con una lucidità di enunciazione che tuttora spiazzano e, mentre suscitano ammirazione, scatenano ammirazione e rabbia. Altro punto che Filippo La Porta da tempo segnala è forse il dramma di Pasolini, d’essere uno gnostico innamorato della realtà (lo ha fatto anni fa in un libro con questo titolo): a dire il vero, il dissidio interiore di Pasolini penso possa ricondursi alla riprovazione sul piano delle idee del consumismo, espressione della società capitalista che avanza travolgendo gl’individui mentre li emancipa o perlomeno li mette nella disponibilità del benessere, e alla impossibilità di sottrarsi al suo fascino. Questa incoerenza fra le molte è lambita dal contributo di Andrea Di Consoli, ed è insita nella natura diabolica appunto della società del benessere che sottilmente vellica appaga ricatta.    

Eccoci al punto, forse. Pasolini viveva ogni suo dissidio pubblicamente, e in questo, sì, forse di lui si può dire avesse un côté dannunziano, anche se tra D’Annunzio, esteta e personaggio pubblico, e Pier Paolo Pasolini, intellettuale di grande impatto pubblico, c’è stata la stagione degli scrittori engagés, e poi D’Annunzio era un copyrighter e pubblicitario, Pasolini vedeva nella pubblicità una delle punte diaboliche della società dei consumi, conculcatrice delle volontà, proprio ciò che lui aborriva, avendo invece preferenza per lo stato di natura e per la civiltà autentica di un’umanità primigenia, intanto andata irrimediabilmente perduta. È vero, forse il suo era un ingenuo vagheggiamento dell’infanzia e della giovinezza, destinate a tramontare, e peggio ancora a corrompersi nell’età.

Sta di fatto che Pasolini ha sempre destato una certa latente o esplicita gelosia, credo, soprattutto per questa sua dote di cantare l’umanità nel tempo, e nel proprio tempo, con una ricchezza di poesia e una limpidezza di sguardo, con una agilità compositiva che mentre richiama la tradizione classica la tradisce ad ogni verso, ad ogni carme, ad ogni opera, con la sua sdrammatizzazione della materia letteraria verso un grado zero dei linguaggi della poesia o del cinema, della polemica civile o del romanzo, tanto che il prosaico sembra dominare, ma tutto questo costituisce il suo metodo mitico che gli permette di rinnovare dall’interno la formulazione poetica e l’intenzione poematica tenendo la scrittura strettamente legata, avvinghiata direi, alle cose alle persone ai luoghi.

Fin dall’inizio Pasolini si è esposto con la propria voce e col proprio corpo. Fin dall’inizio è andato di corsa incontro, direi in pasto, al pubblico e alla critica perché gli era inevitabile porsi come voce che chiama nel deserto, quasi con una inclinazione cristologica, però predicatoria e pedagogica ma non intenzionalmente sacrificale – personalmente ho sempre notato la coniugazione della scomodità della sua figura al dileggio che talvolta gli viene tributato anche da chi intenda celebrarlo. Scandalo e polemica ripagati da adesione e dileggio. Contemporaneamente.

Da questo numero di Achab che sarà presentato venerdì 15 luglio a Roma presso la sede della scuola di scrittura Genius, emerge, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, un Pasolini esplosivo.

Cosa rende l’incontro tra Pasolini e il mondo un inesorabile scontro?

Il fatto, credo, che anche quando entrambi sono o sono stati lungo lo stesso tratto di strada, ciascuno lo ha (per)corso a velocità e con marce innestate diverse. Pasolini, come un mezzofondista, ha corso sempre avanti e chi gli ha arrancato dietro ha finito per detestarlo se non odiarlo cadendo in affanno. Pasolini ci offre, ovunque, nella sua poesia come in qualunque altro genere egli abbia voluto dare alla propria lettura poetica del mondo e della realtà, una cartografia: geografie che con lui spartiamo ma solchiamo con passi diversi. Il piglio della falcata di Pasolini sa di assoluto mentre noi brancoliamo nel regno imperfetto del relativo però reclamando, talvolta esigendo perentori, coerenza e purezza.

Facebooktwitterlinkedin