Raoul Precht
Periscopio (globale)

Poesia del disinganno

Ritratto di Philip Larkin, uno dei massimi poeti inglesi del Novecento, nel centenario della nascita. Uno scrittore che ha dedicato i suoi versi alle piccole e grandi delusioni quotidiane, cantando il secolo della "non appartenenza"

Non voglio dire che il luogo di nascita influenzi necessariamente tematiche e sviluppi nell’attività di uno scrittore. Accade, può accadere, ma non è affatto detto. Ci sono però dei casi che fanno riflettere, in cui il destino e le caratteristiche di un luogo sembrano rispecchiarsi, con tutte le ovvie cautele del caso, in un dettato poetico. Prendiamo il poeta inglese Philip Larkin, di cui tra qualche giorno si celebrerà il centenario della nascita. Larkin nasce a Coventry il 9 agosto del 1922, quando Coventry è ancora una delle tante piacevoli cittadine della provincia inglese, fra l’altro con una splendida cattedrale del tredicesimo secolo che attira visitatori e turisti. Niente, del resto, poteva far presagire la distruzione quasi totale della città ad opera dei bombardamenti tedeschi, fra il 14 e il 15 novembre 1940, che non risparmiano neanche la cattedrale, ricostruita poi in parte negli anni Sessanta dall’architetto Basil Spence con un’operazione di integrazione fra vecchio e nuovo davvero d’avanguardia in quel frangente. Tolto il meritorio recupero della cattedrale, tuttavia, tutto il centro di Coventry è oggi francamente brutto, senza alcuna particolare attrattiva.

Per puro caso, uno di quei casi fortunati che talora si devono semplicemente all’anagrafe, la notte del bombardamento Larkin non si trovava già più a Coventry, ma a Oxford, dove aveva appena cominciato gli studi universitari, non essendo stato arruolato per problemi alla vista. L’infanzia e l’adolescenza trascorse nella città natale non sembrano aver lasciato forti impressioni nell’animo del poeta, ma sappiamo bene come egli abbia applicato sistematicamente questo understatement a tutte le varie fasi (ed eventi) della sua biografia. I conti con Coventry e con l’infanzia, comunque, li regola una volta per tutte nella poesia in pentametri giambici (il celebre blank verse shakespeariano, metro che Larkin utilizzerà spesso, sia detto per inciso) I Remember, I Remember, contenuta nella raccolta The Less Deceived (1955), che si chiude con il famoso verso “Nothing, like something, happens anywhere” [Niente, come qualcosa, succede da nessuna parte]. La città di partenza resta dunque un non-detto, parallela a un’infanzia che Larkin considera anch’essa priva di eventi e in un certo senso non vissuta. Vale tuttavia il fatto, in apparente contraddizione, che per tutta la sua vita Larkin preferirà abitare in piccole città di provincia e non sarà mai tentato dalle sirene della metropoli.

Dopo Oxford, e dopo un passaggio nello Shropshire, a Leicester e Belfast, nello stesso 1955 il bibliotecario Larkin approda all’Università di Hull, e nella cittadina dello Yorkshire vivrà per trent’anni, fino alla morte avvenuta nel 1985, sfornando nell’insieme appena quattro volumi di poesie (con cadenza quasi decennale) e offrendo pochissimo di sé e della propria vita privata al pubblico dei lettori, con una ritrosia che diventerà quasi proverbiale. Pochi mesi prima della morte rinuncerà perfino a succedere a John Betjeman come poet laureate per non accendere i riflettori della stampa sulla propria persona. Il primo libro di poesia, The North Ship, ancora molto influenzato da Hardy, Yeats e Auden, esce nel 1945 e sarà seguito subito dopo, in un periodo in cui Larkin oscillava ancora fra poesia e narrativa, da due romanzi, Jill e A Girl in Winter, pubblicati rispettivamente nel 1946 e 1947. La scarsa eco dei romanzi, unita probabilmente a una sua insoddisfazione personale per gli esiti raggiunti – lui stesso li definirà più dei poemi in prosa che dei veri e propri romanzi –, lo spinge negli anni successivi sempre più verso la poesia, genere letterario che lo mette meno sotto pressione e in cui può dilatare i tempi a proprio agio. Si prende così molti anni per pubblicare il già citato The Less Deceived, e altri nove per The Whitsun Weddings, che uscirà nel 1964 (Le nozze di Pentecoste e altre poesie, traduzioni di Renato Oliva e Camillo Pennati, Einaudi 1969). La sua esile carriera poetica – fatti salvi alcuni componimenti usciti su giornali e riviste, tra cui il famoso Aubade, e qualche poesia minore non pubblicata in vita – si chiude nel 1974 con High Windows (Finestre alte, traduzione di Enrico Testa, Einaudi 2002). L’anno prima aveva però anche curato lo Oxford Book of Twentieth Century English Verse e nel 1970 una raccolta di articoli sul jazz, di cui era un grande appassionato.

Philip Larkin

Larkin è un poeta della quotidianità, delle pulsioni immediate e inestinguibili, dello scarso senso d’appartenenza alla comunità, della delusione e del disinganno – tanto forti da non fargli scrivere quasi più nulla nell’ultimo decennio di vita –, e soprattutto di una profonda, immedicabile solitudine interiore. Descrive, con un linguaggio nuovo, schietto, colloquiale, nutrito di tradizione ma anche di una curiosa tendenza all’iconoclastia, la paura di noi tutti di fronte all’ignoto, a uno sviluppo urbano che ci appare spaventoso, a una trasformazione morale, legata alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta, che non poteva non spiazzare, e infine alla morte: “Unresting death, a whole day nearer now” [Morte infaticabile, ora di un giorno intero più vicina], come scriverà in Aubade. Ma è poi anche un poeta divertente e caustico, ilare, dotato di un umorismo nero che a volte gli permette di aggiustare il tiro e di trasformare l’atmosfera generale dei versi che stiamo leggendo in una contemplazione mai banale del mondo e delle cose della vita. Si pensi alla descrizione, in The Whitsun Weddings, componimento che dà il titolo alla seconda raccolta, dei matrimoni visti dal treno in corsa come un “happy funeral” [allegro funerale]. È un poeta, Larkin, che può abbatterti con un pugilistico diretto, come in apertura di This Be the Verse (in High Windows), quando scrive, a mo’ di filastrocca e con tanto di rima alternata: “They fuck you up, your mum and dad / They may not mean to, but they do. / They fill you with the faults they had / And add some extra, just for you.” [Mamma e papà ti fottono. / Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno. / Ti riempiono di tutte le colpe che hanno / e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te.] E poi conclude: “Man hands on misery to man. / It deepens like a coastal shelf. / Get out as early as you can, / And don’t have any kids yourself.” [L’uomo passa all’uomo la pena. / Che si fa sempre più profonda come una piega costiera. / Togliti dai piedi, dunque, prima che puoi / e non avere bambini tuoi.]

Ma nei suoi versi troviamo anche delle epifanie, dei momenti di rilassamento lirico, pur nell’illusorietà che avvolge i fatti umani e le persone. Persone che non trovano ristoro ai loro mali né nell’isolamento né nella condivisione, mentre vivono un’esistenza da definirsi, scrive in Nothing to Be Said, come uno “slow dying” [lento morire]. Alla domanda di Auden se gli piacesse vivere a Hull, non a caso Larkin rispose che supponeva di poter essere altrettanto infelice altrove.

Poeta volutamente classico, schivo e inattuale come pochi, Larkin è del tutto contrario al vezzo, così comune oggi in letteratura, d’inseguire la contemporaneità. Rispondendo a un questionario sul tema “The Writer in His Age”, Larkin si pronuncia infatti così: “…good writing is most likely to deal with present-day situations in present-day language, but only because good writing is largely a matter of finding proper expression for strong feelings, and those feelings are most likely to arise from the writer’s own experiences and will be most properly expressed in his own language, both of which will spring from his ordinary life.” […molto probabilmente scrivere bene significa affrontare situazioni di oggi con un linguaggio attuale, ma solo perché scrivere bene significa in gran parte trovare l’espressione corretta per sentimenti forti, ed è assai probabile che questi sentimenti derivino dalle esperienze dello scrittore stesso e vengano espressi nel modo migliore nella sua lingua, due cose che scaturiscono entrambe dalla sua vita quotidiana.] Nella sua scelta di un linguaggio colloquiale non c’è insomma alcuna determinazione fideistica a essere chiaro e trasparente a ogni costo; non è anzi neanche una scelta, ma una conseguenza delle modalità espressive.

Era anche completamente estraneo, Larkin, a tutto ciò che fa oggi di un poeta un professionista della letteratura: non gli piaceva leggere le proprie opere in pubblico né esibirsi, non amava i tour culturali in giro per il Commonwealth, deprecava la critica accademica, non concedeva volentieri interviste né riempiva questionari, non frequentava i circoli letterari, in specie londinesi, né gli interessava che le sue opinioni sui fatti del mondo fossero conosciute e discusse. Opinioni peraltro retrive e di rado al passo con i tempi. Al contrario, le ha tenute nascoste così bene che sono emerse solo dopo la pubblicazione delle sue lettere, dando vita a polemiche infinite sul suo moderato razzismo, sulla sua misoginia e il penchant per la pornografia, sulle simpatie per il conservatorismo thatcheriano e le destre. Così come abbastanza ben nascosti tenne il proprio alcolismo e il quadrilatero amoroso (un triangolo sarebbe stato troppo semplice) durato anni con la compagna ufficiale Monica Jones, la segretaria Betty Mackereth e la bibliotecaria Maeve Brennan, per un lungo periodo sua collega a Hull, un quadrilatero basato su un atteggiamento che oggi potremmo probabilmente definire maschilista e autocompiaciuto. Tutte cose che, seppur vere, non spostano di un millimetro il contributo innovativo e prezioso dato da Larkin alle lettere inglesi nel terzo quarto del secolo scorso. Non sarà ricordato, insomma, per la sua opposizione alla modernità (e, in letteratura, agli eccessi romantici e al modernismo) o per i suoi vizi privati, ma per i punti di vista inediti da lui scelti, per la sua voce inconfondibile, per la freschezza del dettato poetico.

La sua è una poesia che non vuole rinunciare alla bellezza, ma che può invece fare tranquillamente a meno di qualunque abbellimento mirante a mascherare la verità. Il rapporto verità/bellezza per Larkin è essenziale, tanto che in un’intervista con John Haffenden dichiara: “…every poem starts out as either true or beautiful. Then you try to make the true ones seem beautiful, and the beautiful ones true.” […ogni poesia in partenza è vera o bella. Poi cerchi di far sembrare belle quelle vere e vere quelle belle.]

In Italia la ricezione di Larkin è limitata. Possiamo sì dire di avere anche, pubblicati da Nottetempo, un paio di romanzi divertenti e godibili scritti all’università, di un valore, tuttavia, che con quello della poesia ha poco a che vedere. Ma al tempo stesso, considerato il fatto che da noi la conoscenza dell’opera poetica di Larkin è affidata unicamente al volumetto einaudiano del 2002 (il precedente essendo ormai introvabile), sembrerebbe davvero urgente proporre al lettore italiano l’opera omnia. Ci si dovrebbe ispirare all’ottimo lavoro fatto prima da Anthony Thwaite nei Collected Poems, uscito nel 1989, poi da Archie Burnett nei Complete Poems edito da Faber & Faber dieci anni fa, volume che è ormai un riferimento imprescindibile per entrare nel mondo di Larkin, anche se contiene davvero tutto, e quindi componimenti di livello molto diseguale. In ogni caso non si capisce davvero perché Einaudi – o un altro dei nostri grandi (e sempre meno grandi) editori – non si decida a varare l’iniziativa di pubblicare almeno tutto ciò che Larkin decise di far uscire in vita e a portarlo finalmente a un livello di fruibilità analogo a quello goduto anche in Italia (persino, direi, in Italia) da Eliot, Auden, Hughes o Heaney.

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