Roberto Cavallini
La memoria e i luoghi

Perdersi a Venezia

Viaggio a Venezia, dentro e fuori dal “centro-centro”, dentro e fuori dal suo aspetto cartolinesco e dalla retorica. Perché è lontano dai luoghi comuni che la città esprime la sua ulteriore diversità, quella della rarefazione del tempo

«Papà, ma è vero che tu non sei nato a Roma, come me e mamma e che sei nato a Venezia?». «Si». Rispose lui abbassando Paese Sera. «Papà, mamma mi ha detto che a Venezia non ci sono strade e che sta in mezzo al mare e le strade sono fiumi e si va su una barca che si chiama gondola». «Sì, le case sono su isolette e si va in gondola.» rispose mio padre mentre fumava la sua Colombo, pacchetto morbido, color tabacco con l’effige del navigatore.

Ecco, non era vero che mio padre era nato a Venezia. Era nato a Bottrighe nel Polesine e quando con la Fiat Seicento affrontammo quel viaggio, per raggiungere Venezia, arrivati nelle vicinanze di Adria mio padre disse con una certa enfasi: «Dopo questa curva c’è casa mia». Ma anche questa volta, l’affermazione non corrispondeva proprio alla verità, la casa sicuramente ci sarà stata molto tempo addietro, ma quando superammo la curva si accorse che il Po, durante qualche esondazione, se l’era portata via.

In fondo, per me, ragazzino in calzoni corti, sempre di acqua e di meraviglia si trattava o Bottrighe o Venezia e poi a scuola non mi avevano detto che il Po era il fiume più importante d’Italia, ancora più del Tevere?

Ma la meraviglia vera doveva ancora arrivare e sarebbe apparsa all’uscita del garage di piazzale Roma.

Quello che mi avevano raccontato e fatto immaginare era vero, c’erano i palazzi antichi, le strade d’acqua, i vaporetti, le barche ed anche le gondole con i gondolieri, abbigliati di tutto punto, ma c’erano anche le calli e i ponti e mi resi conto che a Venezia si poteva anche camminare.

Ovviamente, tranne che per recarsi sulle isole, a Venezia si cammina sempre, perché se devi andare a prendere il traghetto devi camminare e poi, dopo che sei sceso dal traghetto, devi ancora camminare e allora spesso pensi che per raggiungere la tua meta non cambierebbe molto se decidessi solamente di camminare, camminare e camminare.

A Venezia ci si va sempre per qualche importante motivo e ci si ritorna sempre per qualche altro importante motivo. A Venezia ci sono sempre eventi culturali di caratura internazionale, Venezia è una città d’arte, a Venezia c’è piazza San Marco con la sua Basilica, a Venezia c’è Palazzo Grassi e il ponte del Rialto, ci sono le Biennali, che, siccome si alternano, ci sono ogni anno e poi a Venezia c’è la Mostra Internazionale del Cinema, c’è sempre un buon motivo per visitare Venezia, il Carnevale con le sue maschere o la festa del Redentore, il teatro La Fenice, le evocazioni dei romanzi, La Morte a Venezia, e delle canzoni, Com’è triste Venezia (che poi non è sempre triste) e le avventure di Corto Maltese di Hugo Pratt.

Insomma vedere Venezia senza filtri è impossibile, si è sempre alla ricerca della citazione e forse anche della “cartolina”; ma forse a Venezia bisognerebbe andarci e prendersi il lusso di vagabondare, che è un camminare sì, ma senza una meta precisa, bisognerebbe prendersi il lusso di abbandonarsi alla flânerie, che detta così, però, si capisce che quasi quasi, c’è già una mezza intenzione dietro, un retro pensiero, magari si cerca e si spera di avere un colpo d’occhio su uno scorcio alla Guardi o alla Canaletto.

Però perdersi a Venezia può essere anche facile, perché la tecnologia in questo caso ci aiuta; infatti googlemaps, in quelle calli così strette, si confonde e se vuoi andare da una parte, non è detto che tu ci possa arrivare nel modo più diretto seguendo lo smartphone, perché la calle del Forno che stai percorrendo tra San Marco e l’Arsenale, te la indica alla Giudecca e allora tanto vale accettare la proposta che ti fa Venezia, ovvero di andare nella direzione desiderata, più o meno, orientandoti un po’ con i punti cardinali (il sole di giorno aiuta) e un po’ seguendo quello che ti incuriosisce.  Chissà che non ci sia spazio per la scoperta.

A Roma ci sono 13.089 vie, 697 piazze e poi viali e vicoli, a Venezia c’è una sola piazza: Piazza San Marco; una sola strada: Strada Nova ed una sola via: Via Giuseppe Garibaldi.

A Venezia la toponomastica non è una classificazione, è una descrizione ingentilita dei luoghi: sotoportego, rami, riva, sestiere, calli, rioterà, fòndaco, fondamenta, ponte, campo e campiello. Sono inviti ad adeguare il passo e a liberare lo sguardo.

Erano più di quindici anni che non ci vedevamo con Francesca che ormai vive a Venezia da un quarto di secolo, così decidemmo di incontrarci in serata dalle parti di Cannaregio, al termine dei sui impegni di lavoro.

Dall’Arsenale a Cannaregio c’è da camminare, le calli strette e qualche sotoportego garantiscono quel po’ di ombra che diventa vitale in quest’estate torrida del ‘22.

Venendo, più o meno, dall’Arsenale, dopo vari zig-zag e liberatisi dalle quattro calli intorno alla Chiesa San Giorgio dei Greci, che ha un campanile più inclinato della Torre di Pisa, (che non è il solo) tanto che frotte di turisti sono impegnati nel trovare la posizione del “sostegno fotografico” per una foto memorabile, si prosegue verso nord. I negozi di vetrini e paccottiglia come pure la sequela di tavolini di ristoranti tipici con camerieri cino-indo-pakistani (esattamente come a Roma) ormai sono scomparsi, non rimane che lasciarsi scegliere dalla prospettiva più bella e proseguire.

Non si incontrano più grandi chiese e grandi ponti, in acqua ci sono soli pochi barchini ormeggiati, niente vaporetti o gondole, anzi ad un certo punto avvisto sull’altra riva un rimessaggio, gli scafi neri erano tutti in secca e un biondino dalle braccia lunghissime stava lavorando proprio sopra una gondola.

Ecco, se non ci sono cose importanti lo sguardo si posa su cose da niente, su particolari, e sono loro la vera sorpresa. Un portoncino per due appartamenti ha, come pulsantiera del citofono, il logo del Bauhaus, poco più in là, per suonare il campanello dell’appartamento bisogna premere il naso di un mascherone stilizzato e allora ti viene da chiederti chi ci possa abitare in quella casa, che lavoro facciano gli inquilini di quegli appartamenti, come gli sia venuto in mente di presentarsi con una maschera che non ha niente a che vedere con l’estetica del loro carnevale?

Tutte domande senza senso che ti ripeti anche quando passi sotto le finestre, adornate di fiori, dalle quali proviene il suono di un pianoforte rag-time. Dunque, a Venezia la colonna sonora dovrebbe essere equamente distribuita tra Vivaldi ed Albinoni e invece? Rag-time.

Venezia, a parte i luoghi di raccolta dei turisti e l’imprevisto rag-time che mi ha trasferito un po’ di ritmo ed energia, nell’estate torrida del ’22, è una città silenziosa e questo consente al passeggiatore di non avere altri stimoli se non quelli visivi.

A Venezia ti accorgi di essere davanti ad un ospedale perché le ambulanze sono motoscafi parcheggiati lungo la banchina dell’ospedale.

I negozi a Venezia, fuori “centro–centro” sembrano assomigliare un po’ agli empori di una volta, dove andavi a cercare le cose che ti occorrevano, non dove sono le merci a richiamarti dalla vetrina secondo i principi del merchandising. Ti serve un rubinetto? Ecco esposti in vetrina i rubinetti. Ti serve un Phon? Ecco appesi in vetrina modelli di Phon. Ma non è che sono esercizi commerciali in dismissione perché, tra l’altro, espongono anche annunci di richiesta personale con tanto di indirizzo e-mail.

Ecco fuori dal “centro-centro”, Venezia esprime la sua ulteriore diversità, quella della rarefazione del tempo e della lontananza nel tempo, come una scritta “salario” ormai sbiadita testimonianza di lotte dell’altro secolo. Fai quattro passi e un graffito, ad altezza occhi, rappresentante la statua in Campo de’ Fiori a Roma di Giordano Bruno sembra che si aspetti da te almeno un momento di raccoglimento laico.

Vicino al Rio della Misericordia, qualche cicchetteria lungo il canale offre le sue prelibatezze all’ombra dei suoi ombrelloni; qualche frequentatore alza il tono della voce e qualche grassa risata rompe il silenzio circostante.

Il silenzio, che è cosa sconosciuta per un romano, è una costante lungo le calli veneziane e il silenzio ha a che fare con il tempo. Dove c’è silenzio c’è più tempo.

Passo dopo passo si arriva al ponte de Ghetto Vecchio, si entra al ghetto, gli edifici sono più alti e scarni di fronzoli, subito si incontrano uomini con kippah e payot intorno alla sinagoga e come il turismo impone anche il negozio di vetri di murano espone figurine “tipiche”.

Ormai è ora di incontrare Francesca, sempre molto bella, ormai potrebbe essere la madre della ragazzina che intervistai nei primi anni ’80 e che mi fece scoprire che i giovani dei centri sociali chiamavamo Spinaceto (zona periferica a sud di Roma) Spynacity.

Si cena ad una festa di quartiere, col menù tipico di tutte le feste di quartiere e col vino tipico di tutte le feste di quartiere e quando si spengono le luci e tacciono le voci è ora di tornare a casa. Rimedio un passaggio col barchino e siccome sono un forestiero mi viene riservata una sorpresa turistica: il passare, tutti accucciati sullo scafo per evitare di sbattere la testa, sotto l’abside (che è di fatto un ponte) della Chiesa di Santo Stefano ed uscire poco dopo sul Canal Grande.

Chissà che avrebbe detto quel “veneziano” di mio padre, dopo una giornata del genere, lui che Venezia l’aveva contrabbandata come città natale, che era stata meta del viaggio di nozze e dove sarebbe tornato spesso per lavoro come rappresentante di pietre preziose.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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