Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Cesare Pavese"

Pavese da ritrovare

Succedeoggi Libri ripropone un bel saggio di Geno Pampaloni dedicato a tutta l'opera dell'autore di "Lavorare stanca". Un'occasione importante per restituire all'attenzione generale sia lo scrittore sia il grande critico

Un libro di critica letteraria solido, elegante, capace, come raramente avviene, di condurre per mano il lettore, di non farlo sentire solo, in disagiato equilibro sul terreno infido dei particolarismi specialistici. Stiamo parlando di Cesare Pavese di Geno Pampaloni, che con meritoria intuizione editoriale è stato riportato alla luce da Succedeoggi Libri (pag. 180, € 16).

Un libro che in effetti non c’era. Il testo infatti nasce nel 1962, inizialmente destinato alla diffusione radiofonica. Viene poi sì pubblicato, nello stesso anno, ma solo in rivista. La rivista in questione è Terzo Programma, e prende appunto il nome dall’emittente nazionale. Solo in seguito, nel 1981, il saggio approda in volume, insieme però ad altri scritti dello stesso autore che vanno a costituire l’opera di testi vari Trent’anni con Cesare Pavese.

Vale la pena, anche per i non addetti ai lavori, affrontare la lettura di questo agile libretto, pensato fin dall’inizio per un pubblico ampio, sicuramente colto, ma non costituito da professionisti della materia. Innanzitutto per riconsiderare l’opera di un grande scrittore del Novecento, che con caratteri tutti suoi ha descritto un’esperienza storica e insieme una condizione esistenziale comune a tanti. Un autore sul quale, dopo gli iniziali entusiasmi, si è manifestata con il tempo una colpevole distrazione, che ha interessato pure le giovani generazioni, alle quali la sua opera è stata raramente proposta, anche in sede scolastica, forse perché avvertita come troppo legata a una particolare temperie culturale e politica. Inoltre il volume ci porta a riflettere, grazie alle mirabili argomentazioni di Pampaloni, più in generale sul valore della critica letteraria, sulla capacità, nei casi migliori, di farsi essa stessa letteratura, sull’importanza di quel particolare approccio, da un po’ di decenni definito “militante”, che è fatto di passione, di competenza, di volontà comunicativa, di un metodo di avvicinamento all’opera non elitario ed escludente. Va infine rilevata la preziosa introduzione di Raffaele Manica, anche questa appassionata e ricca di utili considerazioni, che mostra del resto una consonanza di intenti ed adesione al metodo critico indicato da Pampaloni. Scrive Manica, quasi en passant, che “la storia della critica, in sé, quando appesa in aria, come per lo più capita in fervide polemiche obliate prima che sia rasciugato l’inchiostro, è un interessante genere di astratto speculare”.

Per nulla astratto è il ragionamento critico di Geno Pampaloni, che ebbe come maestri (tanto lontani tra loro, c’è da dire, pur nella loro comune concretezza), il poeta Giacomo Noventa e Adriano Olivetti, con il quale collaborerà a lungo, prima dirigendo la biblioteca aziendale e poi i servizi culturali e il Movimento Comunità che all’impresa Olivetti facevano capo.

Manica ricorda che Pampaloni si è sempre mostrato “refrattario al libro”, cioè alla composizione di un’opera nata con l’idea di formarsi in volume, preferendo seguire gli autori di riferimento, man mano che se ne andava componendo la produzione narrativa, con brevi saggi o recensioni che, uno dopo l’altro, in maniera quasi incontrollata, finivano per rappresentare dei “libri involontari”. La lezione che viene da Pampaloni (e che ci sembra tanto più importante in questi anni di esibizione critica spesso vanagloriosa e autoreferenziale, con la messa a fuoco orientata su se stessi piuttosto che sull’autore considerato) è innanzitutto nella volontà di raccontare giorno per giorno la letteratura, di essere insomma “critico giornaliero” (come lo stesso Pampaloni si considerò), e come tale aderire all’opera analizzata; nell’intelligenza di utilizzare, sono parole di Manica, “la sorvegliata e accurata passione dell’alto artigianato”, da cui deriva, cosa sommamente apprezzabile, la propensione a “frenare l’eloquenza” e orientare la critica “sotto il segno della pudicizia”.

Il saggio di Pampaloni segue Pavese dagli anni della formazione al triste epilogo del suicidio, non risparmiando critiche, ma sottolineando come, già a partire dalle prime opere, lo scrittore piemontese presentasse dei caratteri peculiari e originali, che si manifesteranno nel tempo con maggiore consapevolezza e con sempre grande forza evocativa. Pavese, dice Pampaloni, “esprime una rara, profonda eleganza, una così naturale musicalità dello stile che ci porta di colpo sul terreno della poesia”. Questo terreno, come avviene nei casi appunto della poesia, è complesso, a tratti ambiguo, occupato in parte dalla figura stessa dello scrittore. Non c’è pagina che riesca davvero a liberarsi “da una sorta di velo d’ombra di timbro esistenziale” e che non costituisca, afferma il critico toccando il cuore stesso della produzione pavesiana, “memoria del destino, situazione dell’uomo nel suo declinare, elegia”.

Ne deriva una continua, quasi contraddittoria alternanza, “canto amebeo” lo dice Pampaloni, “di strazio e di speranza, di pessimismo e di affetto, di solitudine e di slancio al dialogo”. Sta di fatto che questa istanza autobiografica, che sempre accompagna le sue opere, questo “registro delle nostalgie, che ne costituisce la poesia”, questo scivolamento costante in “un quadro di lacerazione dolorosa, di disequilibrio spasmodico, che pure conserva nel suo insieme una miracolosa coerenza”, riconducono vicende narrate e personaggi delineati alla nostra più generale condizione di donne e di uomini, alle sofferenze di tutti. È questa forse la chiave di lettura con cui è possibile ancora oggi avvicinarsi all’opera di Pavese, è questa lucida e a tratti commovente, sempre partecipata interpretazione che ne offre Pampaloni, e che risale all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, a imporne una visione quanto mai attuale. Bisognerebbe allora partire da questa affermazione per rileggerne l’opera: “Cesare Pavese portò sulle sue deboli spalle tutte le nostre croci”.

Geno Pampaloni non solo è un critico attento, che cammina di fianco all’opera e in qualche modo la arricchisce, ma è anche un grande scrittore, che lavora sulle immagini, sulla forza degli accostamenti lessicali, sulla capacità di smuovere con frasi semplici contenuti di evidente complessità. A proposito de La bella estate scrive ad esempio che Pavese accompagna le sue figure di una “simpatia struggente” e che la funzione del narrare, nello scrittore, viene individuata “nel riconoscere sotto i fatti una realtà diversa, più ricca” e questo conduce, preziosa immagine, a una “erosione lirica del realismo”.

Il Cesare Pavese di Pampaloni riesce anche a dirci che la scrittura critica può essere appassionante proprio nel momento in cui non eccede, non sopravanza l’opera applicando ad essa una teoria preesistente, ma si pone al suo servizio e a sostegno del lettore.

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