Roberto Mussapi
Every beat of my life

L’infinito nel finito

In “Luci da un mare notturno” Giovanni Piccioni crea «un canto che è sapienza poetica, mai poesia filosofica, ma agonica resistenza e conoscenza per ardore». Comprendendo bene, dai maestri del passato, che poesia è «unico tempo presente»

La voce soffia, le parole obbediscono a un canto: con la rima primaria e diretta: incanto. È incantante l’inizio, l’arrivo nel grigio della bruma, sospeso sopra il lago: non è l’approdo a un’isola, a una riva lontana e sognata, ma una tappa di un viaggio limbico, che il terzo, magnifico endecasillabo marchia della solitudine: «rari i passanti, gelido il paese». Non l’approdo a un’isola ma nemmeno un viaggio all’inferno, quello di Giovanni Piccioni nel suo felice Luci da un mare notturno.
È un viaggio alla ricerca di se stessi, nella solitudine, ma, oltre le sue pareti di nebbia, cercando il fuoco, la legna da ardere per la casa.
Nella mirabile, fatale citazione dall’Amleto «Ho dentro di me qualcosa/ che supera la possibilità di essere espresso», è la scoperta bruciante dell’infinito, dolorosa perché lo scopri e vivi nella finitudine. Ma i versi di Shakespeare svelano anche la lezione eliotiana di questa poesia. Piccioni sa bene come Eliot, quanto l’amico Pound, facessero presenti versi dei maestri del passato, Dante, Shakespeare, Cavalcanti, in unico tempo presente della poesia.
In questa lirica esemplare del libro, tutto ad alta temperatura e complessa semplicità, dal dolore, dalla terra vuota e nebbiosa, un’invocazione, se la luce che diradò la nebbia farà nascere un fiume, se lui, che è giunto nella terra sospesa, ascolterà il sognato canto delle sirene del lago.
«Il mare notturno», scrive il come sempre impeccabile Alberto Fraccacreta nella quarta di copertina, «è l’emblema della fusione di cielo e terra (…), le luci rappresentano invece i segni tangibili di un’illuminazione».
Introducendo due libri precedenti di Giovanni Piccioni, scrissi come nei suoi versi il dramma non è accostato o rievocato dalla parola, ma nella parola si incarna e prende forma. E sottolineavo la capacità di assimilazione dei classici della modernità da parte del poeta.
Qui, nelle poesie di Luci da un mare notturno, confermo e vedo che l’autore è anche andato oltre, ricreando momenti agonici da Luzi e estatici da Campana, creando canto che è sapienza poetica, mai poesia filosofica, ma agonica resistenza e conoscenza per ardore.
“Alla memoria di mio padre”, la dedica del libro. Il padre, Leone Piccioni, ha avuto dal figlio Giovanni un dono che ha compensato in pieno la vita che gli diede. Qui la poesia è memoria, e la memoria poesia.

Arrivai nel grigio della bruma
e mi sentii sospeso sopra al lago:
rari i passanti, gelido il paese.

Con il vuoto come compagno
costeggiai alte mura
e giunsi alla fortezza,
residuo di guerre combattute.

Dopo cercai la legna da ardere per la casa,
e, come dopo un sogno infranto,
con la mia vera voce dissi:
“ho dentro di me qualcosa
che supera la possibilità di essere espresso”.

Venne allora una luce che diradò la nebbia,
e mi chiesi se mai nascerà un fiume quassù,
se un giorno ascolterò il canto delle sirene del lago
dove una volta era la città.

Giovanni Piccioni

Da Luci da un mare notturno, Effigie, 2022

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