Pier Mario Fasanotti
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Il mito Kuliscioff

Nel racconto di “otto italiani non comuni”, Ernesto Galli della Loggia ricostruisce la vita e la tensione libertaria di Anna Kuliscioff. Gianrico Carofiglio ristampa i suoi racconti con una (furba) coda inedita

Donne in lotta. Tante lo sono state e lo sono ancora, sia pure attanagliate alla ripetizione e, talvolta, a posizioni ribellistiche del tutto personali. La vera ribellione in favore delle donne che volevano essere libere e deprivate dal giogo maschile-patriarcale, si chiama Anna Kuliscioff, nata nella Russia zarista, in Crimea, e poi fattasi italiana (milanese per l’esattezza). Ne fa un ritratto accurato Ernesto Galli della Loggia nel libro Otto vite italiane, Marsilio, 234 pagine; 18 Euro) dedicato al recupero delle biografie emblematiche di otto atipici protagonisti della nostra storia e della nostra identità. Dai Fratelli Bandiera a Pietro Quaroni, da Edda Ciano a, appunto, Anna Kuliscioff. Costei, donna bellissima e sensuale, elegante, testarda, più volte incarcerata (di qui l’avanzare della tubercolosi). La sua lotta è compatibile col fatto che si era laureata in medicina a Napoli, l’unico ateneo italiano che consentiva l’accesso delle donne. Non era sposata, fu comunque madre di Andreina, nome datole in onore del socialista Andrea Costa. Il secondo compagno della donna fu Filippo Turati. Politicamente aderente a quell’arcipelago dei militanti a fianco degli indigenti. Influenzato dalla sua compagna, partì per Napoli portando i frutti di una sottoscrizione destinata ai nichilisti russi incarcerati. La somma fu gestita da Anna, cui piacevano le dispute teoriche, le contraddizioni e lunghe analisi. S’immerse con passione nel “martirologio” russo le cui grandi ombre erano Bakunin, Herzen e Kropotnik. Anna tornò in Russia per svegliare le anime degli oppressi. Tra mille e penose difficoltà, tali da indurla alla latitanza. Tra le sue innumerevoli tappe ci fu Kiev, dove si guadagnava da vivere cantando per le strade. Braccata – così almeno si narra – dalla polizia zarista. A un convegno su Bakunin incontra Andrea Costa. I due s’innamorarono, ma poco dopo l’incontro il socialista italiano finì, per due anni, in una prigione francese. Secondo Costa, Anna era considerata una “signora ricca”. Tuttavia viveva grazie ai soldi che le mandava sua madre.

Giunta in Svizzera si convince che il suo impegno politico sarà in Italia. Si reca a Firenze dove l’accusano di “distruggere non solo la monarchia, ma anche la civile convivenza”. Durante il processo in molti la chiamano “la Madonna slava”. Sentenza: 14 mesi di carcere. Dopo la nascita di Andreina. Ma i loro rapporto s’incrina. Nel 1882 Costa diverrà il primo deputato socialista nella storia d’Italia. Dopo burrascose diatribe, Anna diventa la compagna di Turati, godendone i privilegi economici. In una conferenza, Anna si scaglia contro il “monopolio dell’uomo”. Il sodalizio con Turati si fa sempre più stretto, a tal punto da far nascere il periodico “Critica sociale”. Si stabilisce in un grande appartamento, sotto i portici della Galleria di Milano. Ma i guai non finiscono, grazie soprattutto alle cannonate del generale Bava Beccaris. Condannata a due anni di carcere, uscirà però dopo sei mesi, grazie a un’amnistia. Intanto la figlia Andreina, detta Ninetta, diventa una fervente cattolica, e sposa il ricchissimo Gavazzi, setaiolo. Anna non si scandalizza più di tanto: “Bisogna convincersi che noi non siamo i nostri figli”. In un salotto incontra Benito Mussolini, sul quale non esprime giudizi. Forse soltanto indifferenza intellettuale. Gli anni passano e la tisi non le dà tregua. Alla fine del 1925 muore. Una folla immensa partecipa ai suoi funerali.

Le nuvole. Non esiste saggezza, di Gianrico Carofiglio, viene ripubblicato da dall’Einaudi (209 pagine, 12 Euro). Quel che balza subito all’occhio è il sottotitolo “Edizione definitiva”. Si capirà, leggendolo, che questa consiste nell’inserimento di un racconto, intitolato La forma delle nuvole. I personali ricordi dell’autore affiorano, come per esempio l’aver seguito corsi di karate e la passione per certe canzoni. Siamo in un autogrill. Il protagonista assiste a una feroce scazzottata, interviene e allontana gli aggressori. Fa poi caso a un uomo anziano e robusto. Questi gli chiede un passaggio. Concesso. Comincia una conversazione formata da frasi brevi, incentrata sul nuovo lavoro accettato dal guidatore. L’anziano prende appunti e gli rivolge domande “scomode” sulla decisione (sofferta) dell’uomo al volante, che comincia a riprendere i dubbi sorti prima della sua partenza. L’ospite, vestito in modo trasandato, è tutt’altro che uno sprovveduto, è capace anche di tirar fuori citazioni letterarie e filosofiche. Nel frattempo scrive su un quadretto, che lascerà poi sul cruscotto dell’auto. A una prossima stazione di servizio scende. E svanisce. Il guidatore legge quello che l’anziano ospite aveva scritto: un racconto. L’ultima pagina è bianca, come se fosse il suggerimento di riempirla in base ai suoi problemi professionali. Ciò che l’aveva arrovellato prima della partenza si gonfia al punto da indurlo a cambiare la direzione del suo viaggio. Questa “nuova versione” non può che essere interpretata come una furbizia editoriale e autorale. Il cambiamento, sua pur minimo, di per sé non è da condannare. Ma di furbizia sempre si tratta.

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