Paolo Petroni
Al Festival dei Due Mondi di Spoleto

Calcio & Memoria

A vent'anni dalla prima edizione dello spettacolo, Davide Enia riporta in scena il racconto-narrazione della partita "Italia-Brasile 3-2" ai Mondiali spagnoli. Un tuffo nella memoria e nel senso di una vittoria inaspettata

«Ma che senso ha vincere una partita?» chiede la piccola di casa Enia in un appartamento a Palermo dove, giusto 40 anni oggi, il 5 luglio 1982, tutta la famiglia e parenti vari erano riuniti per seguire davanti a una tv nuova e a colori la partita Italia-Brasile ai campionati del Mondo in Spagna, con una certa depressione perché, venendo inoltre la nostra squadra da tre incontri pareggiati malamente, si aveva introiettato «un senso di sconfitta, sentendosi come un pugile suonato che avrebbe continuato a prenderle» da quella che era universalmente considerata la squadra più forte del mondo, destinata inevitabilmente a conquistarsi quel campionato.

La domanda della bambina è la chiave dello spettacolo, del monologo e la narrazione che Davide Enia fa appunto di quella Italia-Brasile 3 a 2, che l’Italia vinse invece inaspettatamente in 90 minuti spettacolari e di crepacuore e che molti giudicano una delle più belle partite della storia del calcio. I gol di Paolo Rossi, furono una sorpresa incredibile, col calciatore che tornava a giocare per la prima volta dopo la lunga squalifica per lo scandalo scommesse di due anni prima, tanto che la sua convocazione in Nazionale da parte di Bearzot aveva suscita polemiche tra i giornalisti che, nei confronti della squadra italiana, erano diventati molto duri, critici e spesso ai confini dell’irrisione, mentre le loro testate intitolano «Italia contro Marte». I marziani sono gli e eroi invincibili, extraterrestri per bravura come Falcao, Junior e Socrate. Gli italiani sono il «generoso Ciccio Graziani» il «bellissimo Antonio Cabrini» che si immola a prendere palloni in faccia, il giocatore «bassissimo Bruno Conti», Dino Zoff con tutte gli acciacchi dei quarant’anni, e infine Paolo Rossi, il vituperato giocatore «magro magro, con la maglia numero 20, che compare davanti alla porta dal nulla». Uno che cambia «la storia sua e dell’Italia», che in campo nessuno vede, fino a che non si palesa e segna una volta, due volte e tre volte. Tra l’altro i suoi gol, quella vittoria ci aprì la strada a un’altra grande partita, la finale Italia-Germania 3 a 1 con cui diventammo «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» da allora sempre detto tre volte, come lo esclamò esultante il telecronista Rai Nando Martellini, presente nello stadio a Madrid il presidente Pertini.

L’autore e attore proprio in occasione di questo quarantennale di quello storico avvenimento, ha ripreso e proposto al festival di Spoleto il suo suo racconto (pubblicato nel 2010 da Sellerio), aggiungendo al titolo «il ritorno», a 20 anni da quando lo portò la prima volta sulla scena, per mettere in rilievo come quella grande partita col Brasile divenne un momento identitario individuale e sociale, capace di riunire ancora una volta il paese, dove si festeggiò in piazze e vie di città e piccoli paesi tutta una notte e il giorno seguente.

In questo senso è anche la risposta alla piccola sorellina di Davide, che però, da ottimo conoscitore dei meccanismi teatrali, dell’importanza di dare spessore e far metafora di quel che va rappresentando, arricchisce il discorso con un inserto, che pare aggiunto oggi tanta ne è la su attualità, e invece c’era già 20 anni fa proprio per la sua necessaria funzione di anticlimax. Si tratta del racconto delle due partire che, nel 1942, i giocatori della mitica squadra della Dinamo Kiev furono costretti a giocare nell’Ucraina invasa dai nazisti contro la forte squadra tedesca Flakelf, stravincendo una prima volta. Costretti a ripetere l’incontro con un arbitro finto e di parte, per uno scatto d’orgoglio davanti alle miglia di connazionali intervenuti, decisero non di perdere, come convenuto, ma vincere anche quella, segnando così, tra l’altro, l’immediato arresto da parte della Gestapo, la propria condanna a morte e deportazione nei campi di concentramento nazisti, ma dando un primo forte segnale di resistenza al paese.

Vincere una partita può avere anche questo senso, e il passaggio dal salotto di “a casa mea” in contrada Palagonia a Palermo ora chiassoso ora muto per la tensione, colorito, siciliano, con tutti al proprio posto, scaramanticamente pronti a rifare gli stessi gesti in cui erano impegnati una volta che l’Italia aveva fatto gol, e lo stadio di Kiev durante la guerra, introduce la nota drammatica e forte, che riduce al silenzio totale la platea, e pone in relazione quell’atto eroico col giovane Enia che, in quel pomeriggio, in quella partita sudata che l’Italia non avrebbe dovuto mai vincere, trovò dei modelli di comportamento da seguire, la forza del non arrendersi mai.  

Poi – sottolinea Enia riferendosi a questa ripresa del quarantennale – «c’è qualcosa che appartiene a una dimensione più profonda legata a doppio filo con l’essenza del teatro stesso: il rapporto tra i vivi e morti. La presenza di chi non c’è più continua a vibrare, si impone nella memoria, segna traiettorie nel futuro. Molti dei protagonisti di quella partita sono scomparsi, eppure continuano a tornarci davanti come presenze vive, scena dopo scena, gol dopo gol, schiudendo le porte dell’inesprimibile, invitando ad abbandonarci al mistero, permettendoci di scorgere ciò che brilla nel buio e non fa male». Questo grazie alla vitalissima interpretazione, fisica e vocale di Enia, accompagnato e sostenuto anche dalle musiche dal vivo di Giulio Barocchieri e Fabio Finocchio,  il quale al lavoro dona una  vis comunicativa incontenibile come è nei gesti delle sue mani e braccia, delle sue gambe e piedi che recitano in contemporanea ai giochi di dizione, ai toni ironici, ai tormentoni comici, alla parola piana e drammatica, così che alla fine l’applauso è partecipe e quasi liberatorio della bella tensione che ha saputo creare.

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