Donatella Lino
In ricordo di una politica d'altri tempi

Per Lucio Libertini

Un passato "movimentista" e una lunga vita da dirigente e da polemista nel nome degli ultimi: ritratto di Lucio Libertini a cent'anni dalla nascita. Un comunista d'altri tempi, abituato a "fare" invece che a parlare o a catechizzare

Oggi, 1° Giugno 2022, sono cent’anni dalla nascita di Lucio Libertini, politico, giornalista e storico italiano, senatore del Partito Comunista Italiano e poi fondatore del partito Rifondazione Comunista.

Affacciatosi alla politica tra il ’44 e il ’45, tra la Sicilia dov’era nato e Roma dove studiava scienze politiche ed economiche, ha attraversato con rigore intellettuale e impegno civile oltre cinquant’anni di storia della sinistra italiana.

Un uomo libero, intimamente coerente, in cui ha albergato una concezione autonomistica e libertaria del socialismo che, rifuggendo dalle rigide formule dottrinali, l’ha guidato e ispirato a trovare i criteri con i quali interpretare i fatti e tradurli in azione politica.

Graniticamente antistalinista, portatore di una grande idea di democrazia, ma prima ancora di libertà, e di valori autonomi: protagonista indiscusso di un mezzo secolo di lotte, sempre in prima fila sfidando a volte l’impopolarità e l’incomprensione dei compagni.

Ho voluto inquadrare nei suoi caratteri salienti, certamente in maniera sommaria, il personaggio che ho avuto la fortuna di conoscere e di frequentare da vicino negli anni del mio impegno politico.

Ero stata appena chiamata dal PCI palermitano a dirigere la commissione Casa Trasporti e Infrastrutture che mi fu recapitata una lettera di convocazione di una riunione a Roma del settore da parte del responsabile nazionale, appunto Lucio Libertini.

Mi recai a Roma non senza una certa emozione che mi prendeva sempre quando varcavo la soglia del palazzo delle Botteghe Oscure, la sede nazionale del PCI.

Questa volta l’emozione si accompagnava, anche, alla curiosità di incontrare e conoscere Libertini di cui avevo sentito spesso parlare a Palermo dai dirigenti locali.

Lucio all’interno del PCI era annoverato tra i “movimentisti” un termine che, per l’ala ortodossa del partito sottintendeva un giudizio un po’ canzonatorio, quasi un sinonimo di ingenuità politica.

Questo tema del rapporto tra il partito e i movimenti è stato sempre una costante all’interno della sinistra tra chi sosteneva l’autonomia dei movimenti di massa che nascevano dalla società, con punte anche di estremismo con lo slogan il movimento è tutto, e quelli che, per contro, avevano una visione strumentale dei movimenti nel senso che dovevano essere ricondotti alla linea e al progetto del partito.

Lucio aveva aderito al PCI attraverso la confluenza del PSIUP (partito socialista di unità proletaria) dopo la sconfitta nelle elezioni del 7 Maggio 1972 che aveva privato, lo stesso partito, della rappresentanza parlamentare.

Il PSIUP era nato, nel 1964, da una scissione del partito socialista, in seguito all’accordo dei socialisti con la Democrazia Cristiana che aveva dato vita alla nascita del primo governo di centro sinistra.

Anche all’interno di questo partito si fronteggiavano due linee. Quella che, rispetto al PCI, mostrava una tendenza filosovietica rappresentata da Dario Valori e Tullio Vecchietti e quella che si collegava al pensiero di Rosa Luxemburg in cui si esaltavano i valori primari del socialismo, quali la libertà e la democrazia, rappresentata da Lelio Basso e sostenuta anche da Libertini.

Significativa a tal proposito fu la storica polemica della Luxemburg con Lenin appunto sul ruolo del partito e del movimento.

Nel PCI Libertini, con questo retroterra culturale, si trovò insieme a quella componente movimentista che faceva capo a Pietro Ingrao mantenendo sempre però una sua autonomia di pensiero e di azione.

Non a caso quando scoppiò nel Mezzogiorno, e soprattutto in Sicilia, il movimento degli abusivi, Libertini ne sposò la causa polemizzando con quanti all’interno del PCI, a cominciare da Ingrao, lo condannavano considerando un errore politico sostenerlo.

Libertini pensava, al contrario, che fosse un errore stare fuori da quel movimento che nasceva da un bisogno reale di tanti lavoratori che nulla avevano a che fare con il mondo della speculazione e compito del partito era quello di assicurare al movimento uno sbocco democratico e non lasciarlo nelle mani della destra e degli speculatori.

Ebbi modo di apprezzare in Lucio la lucidità dei ragionamenti in cui sapeva alternare, magistralmente, severità e ironia, la competenza nei vari comparti del settore che esprimeva con un linguaggio semplice ma non superficiale, in grado di farsi capire dal ferroviere come dal titolato urbanista.

Fui letteralmente attratta dalla energia e dalla carica ideale che trasmetteva all’uditorio. Ricordo molto bene anche i tratti del suo volto: mascella forte e volitiva, occhi stretti che non staccavano mai il tuo sguardo quando parlava, labbra sottili che sapevano schiudersi per donare sorrisi complici e leali.

Iniziò, così, un lungo sodalizio politico e umano, un legame che contribuì notevolmente alla mia crescita politica e professionale. Maestro in politica e nella vita, con Lucio riuscii ad impadronirmi degli strumenti di analisi e di conoscenze delle diverse problematiche e a condividere amicizie speciali tra le quali quella con Fabio Ciuffini con il quale aveva una forte sintonia politica culturale e tecnica.

Sul terreno dell’impegno e dell’iniziativa politica nessuno era in grado di stargli dietro. Era una forza della natura, uno tsunami. Attraversava l’Italia da nord a sud, passando da un aereo all’altro, non limitandosi alle riunioni di partito ma privilegiando l’incontro con i lavoratori e le lavoratrici a cui sapeva infondere entusiasmo, fiducia e speranza, quelli che nei suoi appassionati comizi definiva “il sale della terra”.

Quando veniva in Sicilia ero sempre con lui, instancabilmente in giro a parlare con la gente. Si passava dai ferrovieri, ai portuali, dagli operai dei cantieri navali, ai metalmeccanici del materiale rotabile, dai telefonici agli occupanti abusivi delle case popolari.

Sapeva trascinare con il suo eloquio chiaro e un italiano impeccabile; parlava sempre a braccio memore del vecchio detto latino “rem tene, verba sequntur” ma soprattutto aveva il pregio di mantenere gli impegni presi con azioni parlamentari dirette esercitandone, quale parlamentare, il controllo politico, per poi tornare ad informare i lavoratori dei risultati raggiunti e di quello che ancora si doveva fare.

Una manifestazione concreta di cosa doveva e dovrebbe essere la Politica: stare vicino alla gente, risolvere i loro problemi, aiutarli a crescere culturalmente e socialmente come elemento fondante della democrazia.

Era un grande polemista che rifuggiva dall’astrattismo dottrinale e dall’aristocratismo di maniera di alcuni Soloni del PCI immergendosi, anima e corpo, nella durezza delle lotte popolari contro ogni forma di ingiustizia e prevaricazione nei confronti dei ceti più deboli.

Ne fu un esempio il grande movimento della lotta degli abusivi che ebbe il suo epicentro in Sicilia allorché il governo di allora per fare cassa tassò con un forte ammenda le costruzioni abusive, la cosiddetta oblazione.

Libertini distinse tra gli abusivi di necessità e gli speculatori: non si poteva – disse – mettere sullo stesso piano l’emigrato che, a prezzo di grandi sacrifici, si era costruito la casa abusiva per colpa delle amministrazioni comunali che non avevano adottato i piani regolatori, e la fiorente speculazione edilizia di quegli anni.

Tutto ciò suscitò una grande polemica all’interno del PCI, delle organizzazioni ambientaliste, tra intellettuali e giornalisti.

Una polemica pesante che non risparmiò neanche carismatici dirigenti come Maurizio Valenzi, sindaco di Napoli, di cui Libertini si fece carico promuovendo, tra il 1985 e il 1986, due grandi convegni nazionali a Palermo e a Vittoria in cui tema centrale fu il recupero e il risanamento del territorio nelle città del mezzogiorno per superare l’abusivismo, il degrado e la devastazione legalizzata.

Diceva Libertini: «Non dobbiamo aver timore di sporcarci le mani intervenendo nel reale, perché non l’abbiamo mai avuto nella nostra storia: e non abbiamo la pulizia dei sepolcri imbiancati. Ciò che vogliamo, usando ogni mezzo, è superare finalmente la fase caratterizzata dalla devastazione del territorio e aprirne un’altra nel segno del suo recupero. Non vogliamo solo sognare un paese migliore ma vogliamo arrivare ad un paese migliore. E dunque il rigore necessario deve accompagnarsi ad un legame profondo con la condizione reale della gente, con i suoi problemi».

Parole attuali e profetiche per un Mezzogiorno d’Italia che ancora oggi, devoto ai monumenti della burocrazia, fa i conti con il fallimento dell’urbanistica e la sua arretratezza infrastrutturale: un colossale pasticcio di abusi perdonati e no, di situazioni sanate a metà, di abusi d’annata e di nuovi abusi.

Il legame politico che si era istaurato fra di noi ben presto si trasformò in una grande e affettuosa amicizia per cui non mancarono occasione di frequentarci al di fuori della politica, in compagnia delle amatissime Gabriella, la sua compagna e, la figlia di lei, Cristina.

Di fronte a questa bambina Lucio si trasformava: non era più il rigoroso e austero dirigente politico, che il costume comunista imponeva, ma il genitore che godeva della vivacità e delle affettuose effusioni della bambina.

Un genitore accudente, dolce ma rigoroso, disponibile al gioco, educatore capace di stimolare curiosità e passioni anche sportive. Si, perché Lucio era anche un grande nuotatore, nel mare come nella vita.

È stato un privilegio conoscerlo, frequentarlo da vicino, godere della sua amicizia. Di lui ho, ancora oggi, un ricordo vivido e indelebile seppur con il rimpianto e la nostalgia per la crisi di quei valori e di quegli ideali in cui Lucio ha speso tutta la sua vita con scelte generose e spesso sofferte.

Uno dei motivi del declino della sinistra, prigioniera nelle catene della litigiosità e del conformismo politico nonché di anonime leadership, a mio avviso, risiede proprio nell’avere smarrito il valore di una storia, di avere cancellato il ricordo di quegli uomini e donne della politica, che con modestia e discrezione hanno sviluppato un profondo legame con il proprio popolo, diventando autorevoli leader, competenti parlamentari rispettosi del ruolo e dell’istituzione. Uomini come Lucio Libertini.

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