Giuseppe Grattacaso
La morte della poetessa

Lettera a Patrizia

Ricordo di Patrizia Cavalli: una poetessa che sapeva sempre stupire il lettore mettendolo ogni volta di fronte a una rivelazione. Quella delle parole che si vanno vita ed esperienza, al di là delle immagini e della memoria che rievocano

Cara Patrizia, non so perché ora, alla notizia della tua morte, è questa la prima immagine che mi si presenta: ti rivedo al tavolo di una trattoria, che discorri con veemenza dei gabbiani, che lì, nella tua casa di via del Biscione, sul terrazzino a poche decine di metri da Campo dei Fiori, ti apparivano, come sono in effetti in certi casi, animali infidi, pericolosi e aggressivi. Avevi parlato sempre tu, come ogni volta succedeva, quella sera di vini e cantine, dei tuoi anni giovanili quando avresti voluto, così dicesti, essere come Patty Pravo e perciò ti eri trovata uno pseudonimo che scimmiottava quello della cantante del Piper, un nomignolo che ora non dico e che mi fece molto ridere. Mi spiegasti le tecniche per difendersi da quei grandi uccelli cattivi, bisogna proteggersi le spalle e la testa, quasi urlavi, e mimavi i movimenti. In quel tuo modo strepitante, ironico, battagliero e teatrale, in quella dolcezza che avresti voluto non mostrare, nella noncuranza che ostentavi e non avevi e con la quale pure avresti voluto affascinare, in quella sensibilità a tratti indulgente, sempre in cerca di equilibrio e sempre pronta a scivolare nell’animosità e nel sarcasmo, c’erano tutta te stessa e la tua poesia.

Era l’autunno del duemilasei, quell’anno era stato pubblicato uno dei tuoi libri che più ho amato, Pigre divinità e pigra sorte, e me lo dedicasti con le parole “a Giuseppe, nel furore”.

Il furore, appunto. Come nella poesia Aria pubblica, che si trova nella stessa raccolta, quando ti scagli contro tutte le occupazioni, più o meno abusive, delle belle piazze e strade di Roma e d’Italia. I mille tavolini dei mille bar e ristoranti, sempre più invasivi sempre più pacchiani. Gli eventi più o meno culturali, i concerti e concertini, le mascalzonate di ogni genere. Dai gabbiani forse ci si può difendere, dall’avanzata schiamazzante della zotica barbarie, travestita da divertimento, certamente meno. “L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?” Era la deturpazione della bellezza che non potevi sopportare, la volontà di non lasciare spazi vuoti, così necessari per permettere alla bellezza di vivere ammirata: “Dunque una piazza va lasciata in pace, / non è merce da farne propaganda. / Ci pensa lei da sola ad animarsi, / quello che importa è che sia pubblica piazza. / (…) / E se non è così / non è più piazza, è privata terrazza / o lugubre infinito lunapark”. E poi, nel furore, “Come faccio a non vedere la fatica / quasi ridicola, di chi si ostina / a spingere il pupetto in carrozzina? / E lui cosa vedrà, laggiù, nel basso? / Se non è merda, è piscio e noccioline”.

Te l’ho sentito leggere alcune volte questo poemetto, questa e altre poesie, non leggere anzi, ma declamare a memoria, un po’ cambiando le parole, un po’ fingendo di non ricordare (tutta scena, io credo). A memoria anche a Firenze, in occasione di non so quale premio che ti avevano dato, e tu mi chiedevi di questo e di quello, chi fossero, se ti potevi fidare. Non avevi più capelli per la malattia che già da qualche tempo avevi dovuto affrontare. Quando hai cominciato a dire le tue poesie, l’hai fatto con la posa di sempre, il capo eretto, girato un po’ di lato, lo sguardo ironico, il tono affabulante. Anche quella volta, un po’ istrione, un po’ ispirata, un po’ non-ci-credete.

A tutti quelli che negli anni, tanti anni, almeno un paio ogni mese, mi hanno detto, con sufficienza o per scusarsi, “io la poesia non la capisco”, ho sempre replicato di ripetermi la stessa frase, ma dopo aver letto le tue poesie, le poesie di Patrizia Cavalli. È successo che qualcuno, dopo tempo, mi abbia ringraziato.

Cara Patrizia, è vero quello che tu hai scritto, che è anche il titolo del tuo primo libro, che le poesie, le tue, come quelle di tutti del resto, “non cambieranno il mondo”, ma sai benissimo che la poesia esiste solo se si dà il compito di cambiarlo il mondo, missione velleitaria e dunque fatica inutile quella dei poeti, ma non c’è altro modo e non c’è fatica più grande e più bella. Nella tua poesia c’è sempre questa consapevolezza, perciò quel tuo furore, l’istrionico distacco, la dolcezza. Lo sanno i tuoi lettori, capiscono i tuoi versi, la loro sotterranea complessità, la ruvidezza, la chiarezza, capiscono tutto, anche quelli “io la poesia non la capisco”.

La tua poesia è fatta di improvvisi bagliori, tanto cari anche a Sandro Penna che amavi e a cui tante volte sei stata accostata, e di amori repentini, eppure chissà come interminabili, di fulgidi stupori e poi del precipitare in zone d’ombra, negli annuvolamenti inaspettati. Avviene anche nell’ultimo tuo libro, Vita meravigliosa, dove più percepibile è il senso della fine. La speranza e la disperazione che si tengono per mano, l’amore e il suo negarsi, il giocare sempre con la mancanza di senso e con la certezza che un senso in qualche posto riposto dell’esistenza, forse proprio nel fondo, deve pure esserci: “La mia disperazione è la speranza, / io spero troppo e troppo spesso spero / ma è uno sperare fatto di incostanza, / giro la testa e mi ricala il nero”.

I tuoi lettori sanno che sei una poetessa sapienziale, che all’improvviso ci metti di fronte a una rivelazione, ma che la tua saggezza ci conduce dove non ci aspetteremmo di arrivare, imbocca strade impervie, proprio quando credevamo di procedere sicuri verso una qualche verità. La vita è meravigliosa perché quella verità non esiste e perché basta poco per credere che una soluzione sia possibile. A volte uno sguardo, una carezza, un bacio. “Ah l’avessi saputo / che bastava un bacio per aprirmi le vie dell’universo / stelle e pianeti che si incrociano / parlando, costellazioni intere / che si intessono. / E io in mezzo a loro che le guardo / tessile ordito ardente / che reggo, e non domando”.

Tu però, Patrizia, resta dove sei, dentro la tua poesia e alle domande che non vuoi fare. Resta dove sei, proprio come dicono i versi di una tua lirica di Pigre divinità e pigra sorte:

Ah resta dove sei! Io qui
nell’ora incerta di un tardo pomeriggio
guardando fuori e anche guardando dentro
vedo questa bellezza
tutto quello che vedo è la bellezza.
Qualcosa che convince, che vuol essere vista,
che pure non fa nulla, che resta lì dov’è, che solo perché esiste mi conquista.

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