Flavio Fusi
Cronache infedeli

Le delusioni di Izet

Ci voleva una lunga guerra – terribile come è stata quella di Bosnia – per mandare in frantumi il sogno di fratellanza poetica di Izet Sarajlic. Trenta anni dopo, un’altra guerra toglie la maschera all’impero travestito da liberatore.

C’è un ennesimo tradimento in questa guerra scatenata dal despota russo contro i deboli e gli indifesi. Un trascorso tradimento – che non sarà l’ultimo – lo ha raccontato all’ingresso del nostro secolo il poeta bosniaco Izet Sarajlic, scampato alla tragedia di Sarajevo, orfano di amici, compagni, fratelli, amate presenze. A pagina 57 dello straordinario Libro degli addii, in cui lo scrittore si accommiata dal mondo, ecco la lirica Addio alla via Vorovski.

«Qualcosa di terribile è successo per tutta la Russia», racconta nei suoi versi Sarajlic: l’Associazione degli scrittori prima sovietici e adesso russi – che appunto si trova a Mosca nella centrale via Vorovski, oggi via Povarskaya – ha appena concesso il Premio Sholokov alle cosiddette poesie del criminale di guerra Radovan Karadzic, capo dei serbi di Bosnia, che inneggia alla distruzione di Sarajevo: «Brucia la città come un grano di incenso/ in quel fumo la nostra coscienza serpeggia…». È un riconoscimento infame, che segna la fine del grande amore tra il poeta bosniaco – comunista militante – e la Casa Russia: l’addio dalla storia e dalla memoria, dai miti e le illusioni della giovinezza, dai luoghi stessi della geografia moscovita.   

Irina Dudinova
desiderava tanto passeggiare
con me e Tamara lungo il Nevski Prospect.
Non ci saranno più né il Nevski Prospect
Né le Colline dei passeri.
Con la granata tirata su Sarajevo
Dalle postazioni serbe sul Trebevic
Li ha uccisi
Lo scrittore Eduard Limònov.
Ecco in cosa si è trasformata
La grande letteratura russa.

Eduard Limònov, un altro personaggio sinistro, si affaccia nel ricordo e nell’addio del poeta bosniaco. Lo scrittore rosso-bruno morto due anni fa, il grande irregolare, volontario cetnico nella guerra bosniaca e teppista di strada nelle notti moscovite, fondatore del Partito Nazional-bolscevico, non ha fatto in tempo a vedere nella Russia di Putin imperiale e cenciosa la realizzazione del suo sogno distruttivo.  Limònov è morto, sepolto, forse dimenticato. Ma le sue parole disegnano oggi meglio di tante altre il meccanismo profondo del potere carnivoro che si è impadronito della povera Russia: «In due ore di guerra si impara sulla vita e sugli uomini più che in quattro decenni di pace. La guerra è sporca, è vero, la guerra non ha senso, cazzo! ma nemmeno la vita civile ha senso, per quanto è tetra e ragionevole a forza di frenare gli istinti. Il piacere della guerra vera è innato negli uomini come quello della pace, ed è una idiozia volerli mutilare di questo piacere, ripetendo: la pace è buona, la guerra è cattiva…».

Ma dimentichiamo Limònov e i suoi deliri: il tempo ha risparmiato a Izet, morto nel 2002, lo spettacolo mostruoso della metamorfosi di un Paese «amato come pochi».

Lo scrittore bosniaco è parte di una fratellanza che in ogni strada di Mosca – dalla Nuova Arbat alla piazza del Maneggio, dall’Anello dei giardini al lungo serpente della Tverskaya – richiama la presenza viva di innumerevoli compagni di viaggio.

E quanti fratelli poi avevo
tra gli scrittori russi.
Alcuni erano ebrei,
altri ortodossi,
altri membri del partito,
altri emigranti interni.
Ma tutti insieme
e prima di ogni altra cosa
erano antifascisti.

Ci voleva una guerra – come è stata la lunga guerra di Bosnia – per mandare in frantumi il sogno di fratellanza poetica di Izet Sarajlic. Trenta anni dopo, un’altra guerra toglie la maschera all’impero travestito da liberatore. Izet sa bene: «Solo la guerra non suona/ entrando nella casa della gente./ Entra come se ne avesse il diritto./ La gente smette di attendere i buoni incontri/ e tu stai seduta sola con tua figlia tra un allarme e l’altro…».    Ma non si arrende questo poeta testardo – con la sua massa di capelli bianchi, il suo nasone, i suoi occhiali pesanti, il suo disarmato sorriso: «Sì, una cosa, forse la più importante/ ho dimenticato di dirtela/ in questo discorso di addio./ La dirò adesso:/ persino i nostri sogni del comunismo/ valevano di più/ di tutte le nostre successive delusioni».

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