Pier Mario Fasanotti
A proposito de "Lo sputo"

La guerra di Serafina

Marzia Sabella ricostruisce l'avventura umana e giudiziaria di Serafina Battaglia, la donna che negli anni Sessanta e Settanta sfidò la mafia cercando di sconfiggerla. Ma che rimase impigliata nelle pieghe di una burocrazia compiacente

Davanti alla psicologa con le gambe accavallate che le parla di empatia e in generale di giustizia, Serafina Battaglia, detta Fina (nella foto accanto), ribatte che “sono tutte minchiate” e trattiene a stento uno sputo. La ribelle palermitana, pur conoscendo bene i mafiosi che per anni e anni hanno frequentato la sua torrefazione, ha preso una decisione, che non mollerà mai: dichiarare guerra a quella che chiama “gente di nessuno”. A un giornalista spiega che “i pezzi grossi se ne fottono, pensano solo alle poltrone al loro culo”. Mostra, “schifiu”, e guarda le foto del marito Salvatore e del figlio uccisi in due diverse occasioni, fissa la pistola posta su un comodino. 

La reale storia di Serafina, protagonista della cronaca e della lotta alla mafia tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, passo dopo passo, è oggetto della lucidissima analisi che fa Marzia Sabella, magistrato siciliano, sul fenomeno mafioso, inteso come impasto di crimini, occasione per far gruppo, scambio di interessi a favore del potere politico. E altro ancora. Quello di Marzia Sabella non è un saggio nel senso vero del termine perché cavalca con grande eleganza lessicale il ritmo romanzesco ma racconta una storia vera e terribile. S’intitola Lo sputo (Sellerio, 165 pagine, 14 Euro).

Serafina Battaglia esprime quasi con rabbia di non aver mai pagato il pizzo. E sporge denuncia. Che la porterà dinanzi a varie corte di assise, in diverse città. Con tono fiero e insieme dimesso si avvia davanti alla corte dopo aver sputato contro tutti gli imputati, che sono dietro le sbarre. “Fulminò la sala che non ci sono parole”, annota l’autrice. Con un volto inespressivo ricorda gli anni della “guerra” delle coppole, “guerra che fu sua”. “Lo rammentava sempre; sola con la veste scura perché le sue grida avessero la legittimazione dei morti. Sola con l’arroganza che cela la paura”. 

Da un tribunale all’altro, da una sentenza all’altra. Vittorie e sconfitte, Anche contro il clan Rimi (che Serafina Battaglia sfidò frontalmente). TV Sette, intervistandola, la chiama la vedova della lupara. “Signora, perché?”, le chiede un giudice. Scrive Marzia Sabella: «Sarebbe stato facile cogliere l’attimo per rivelare il miglior profilo di sé…”. Silenzio, “solo quegli occhi neri e gravi che, a saperli leggere, ci si perdeva nella Magna Grecia”. Davanti allo specchio di casa “Fina incrocia se stessa: una quarantenne con il viso ignaro di essere stato bambino…quel sorriso annerito di veleno”. Del resto dove poteva andare una vecchia che non cerca il nutrimento del corpo né quello dello spirito? Non era stata una moglie da cucina né da faccende di sagrestia. Aveva vissuto come un uomo tra gli uomini che s’assiepavano tra le cicche nel retrobottega della torrefazione. “Ferro e rosario insieme, per avere le armi degli uomini e della provvidenza”. Il suo comportamento faceva notizia, i giornali la chiamavano “La vedova con la P38”.

Lei ricorda con commozione il giudice Terranova (colui che raccolse le sue testimonianze), ammazzato dalla mafia… “Ce n’è uno solo sulla terra. Uno solo! E non offendendo tutti e non c’entravano l’ottusità degli uomini e la lungimiranza di Dio”. Serafina nel suo girovagare di aule, nel vociare accuse, nella sfida a uomini da uomo. “Però qualcosa la chiarì: non credeva: non credeva ai giudici ma a uno di loro, a colui che aveva trasformato le parole di donna Fina nel tormento di altri”. Davanti agli uomini con la toga nera “scrive una nuova trama”. Sono tanti i giorni in Sicilia in cui assieme ai rami d’ulivo svettano le lupare. Erano gli anni Sessanta e Settanta, scrive la Sabella, in cui di mafia si sapeva ancora relativamente poco. I giornali capirono che donna Fina, “prima di sciogliere i racconti, avrebbe dovuto superare la dogana oltre la quale le sue parole potevano trovare accoglienza”. E poi: “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare come faccio io, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”.

Sì, perché “le donne soffrono, e sanno tacere pur venendo a conoscere cose orribili”.  Hanno sempre saputo: “Anche il giudice ne era convinto”. Ma Serafina “era andata fuori tema”, secondo il regolamento processuale. Ciò che lei sapeva “valicava le pareti di una dimora e il presagire gli umori attraverso un talamo silente o un piatto di pasta che si raffredda pieno”. Scrive l’autrice: “La storia è tutta qua, lei pensava, dentro il confine dell’esistere e nella semplicità dell’essere, senza fasti e intenzioni traducibili… Fina sentiva he non si sarebbe mai nascosta sotto la propria veste, tra i colpevoli e gli innocenti, perché, nel vivere se stessi, le colpe sono riparate dal perdono e l’innocenza è tradita dal peccato”.

Le autorità religione le vietarono d’entrare in chiesa. Padre Mariano ci aveva riflettuto assai, ma poi si rassegnò in quanto i capimafia di Alcamo s’erano rivolti al “Monsignore”, al quale Fina aveva chiesto di consacrare una parte di muro appese al quale c’erano foto, santi e madonna (“Ah, questo proprio no, signora mia”).

Nel negozio sbrigava qualche faccenda un certo Pauluzzu. “Lei aveva fatto la sua parte per relegare il garzone nell’asfissia di un recinto… ma il picciliddu, ad ogni due e tre, si abbandonava ad un piangere snervante che richiedeva la subitanea attenzione”. Qualche vicina di casa gli portava qualche regalino. Anche una pistola di legno. Strano ragazzino, “al quale toccò anche il vizio capitale dell’invidia, l’unico che, contrariamente agli altri, produce perpetua sofferenza e mai soddisfazione. Fu sciagurato anche nel peccare. La lussuria o la gola mai lo tentarono e mai lo appagarono, per lasciare il posto alla rivalità astiosa”.

Il figlio Stefano era stato un giovanotto sincero, ma di rare parole, “più per insicurezza che per rispetto… si teneva in disparte, come se godesse ad ascoltare, ma in verità non aveva niente da dire”. La vigilia della Domenica delle Palme del 1960, in una strada uguale alle altre, Stefano “finì di campare”. In tre gli spararono (“sparaci, sparaci ancora a ‘stu castru”). Donna Fina, dopo la sepoltura, andò dal capomafia “con la borsa sottobraccio e l’aria dell’affronto”. Gli disse che circolavano delle voci false, che “c’è qualche tragediatore che va dicendo bugiarderie sulla mia famiglia e non vorrei che vostra voscenza si fosse fatta impressionare dalle chiacchiere”. “La mia persona integerrima e sincera, aveva risposto lui infastidito, sa distinguere, con una sola taliata, gli amici dai nemici, le falsità dalle infamità, il rispetto dall’offesa”.

Parecchie persone si sentirono in obbligo di far visita a Serafina. A prescindere dall’essere o no mafioso, “perché la morte è morte, sospende la guerra e attiva la legislazione speciale dei tempi del lutto… non era neanche scissione tra il senso del dovere mafioso di ammazzare e quello di umanità verso l’ammazzato… non si trattava di sviare i sospetti, tanto le prove non le cercavano: che si ammazzassero tra di loro, né unificazione, in capo alla stessa vittima, tanto noi siamo padri di famiglia”. Poca differenza quindi tra l’essere curnuto in vita e mischinu all’atto della morte. Marzia Sabella fa un distinguo essenziale: “Il mafioso va a messa, porta la statua dei santi, brinda nei matrimoni, fa l’elemosina al disoccupato e presta l’aratro al vicino di casa. E’ una questione di integrazione sociale: la mafia non esisterebbe senza queste relazioni”.

Serafina Battaglia, che mai si arrese, ha trascorso i suoi ultimi anni in casa, da reclusa. Ogni sera caricava la sveglia a forma di gallina: il becco che doveva far rumore non lo fece più. “Tic tac, rimbombava nel corridoio. Tic tac. Ma il 10 settembre 2004 c’erano state altre parole in un giorno del tempo che si era fatto fugace…la gallina arancione che becca, si alza e becca, tic tac e si alza”. Quasi in un soffio, prima di morire, Fina Battaglia, che ormai viveva in una casa di morti, trova due parole, le ultime a più di ottant’anni.

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