Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il secolo di Pahor

Trieste, la lingua e la cultura slovene, l'Italia, l'Europa, i totalitarismi, il Novecento come luogo della memoria e del conflitto permanente: ritratto di Boris Pahor, lo scrittore scomparso due settimane fa alla significativa età di 108 anni

108 anni, quasi quarantamila giorni. È rarissimo, ma può anche essere la durata (forse invidiabile, forse no) di una vita. E, nel caso che ci interessa qui, una vita piena, intensa, sfibrante, fatta di guerre, di campi di concentramento, di malattie e recuperi, ma soprattutto di resistenza al male cosmico. Boris Pahor, grande scrittore sloveno, più volte candidato al Nobel (che, come molti altri scrittori di vaglia, non otterrà mai), ci ha lasciati il 30 maggio scorso, spegnendosi serenamente nella sua città, Trieste, attorniato dalla comunità che sapeva e voleva sua, quella di lingua slovena. Sempre a Trieste, allora però città imperiale, era nato il 26 agosto 1913. C’era ancora, ci sarebbe stato per molto poco, l’impero austroungarico, una Cacania già in forte crisi, dove si avvertivano chiaramente i prodromi della disgregazione imminente. I primi anni di vita di Pahor saranno tormentati dalla Grande guerra che si abbatte sull’Europa e non sembra voler più terminare. Quando finalmente finisce, e Trieste passa sotto il controllo dell’Italia, l’infanzia sarà funestata da un altro evento che gli si imprime nella mente e nella memoria, tanto da fargli dire in Necropoli che al bambino che era “era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro”. Mi riferisco al terribile incendio, proprio vicino casa sua, della casa della cultura slovena, il Narodni Dom, ad opera di squadracce fasciste che a Trieste nel 1920, e quindi con un certo anticipo rispetto al resto d’Italia, inaugurano quella che sarebbe diventata la lunga stagione dello squadrismo e della pulizia etnica. Sarà poi proprio l’Italia fascista a mandarlo in guerra, in Libia, a combattere per la grandezza di una patria che non poteva riconoscere come sua. Non sorprende che nel 1943, durante l’armistizio, Pahor passi a far parte dei combattenti di una formazione che già nel nome, l’acronimo TIGR, cita i nomi sloveni delle città da riconquistare all’Italia: Trieste, Istra (Istria), Gorica (Gorizia) e Reka (Fiume).

Arrestato dalla Gestapo a seguito di una soffiata, in una casa dove nascondeva del materiale propagandistico compromettente, dal febbraio del 1944 Pahor va incontro al suo destino di prigioniero politico, peregrinando da un campo di lavoro all’altro, subendo cioè gli spostamenti continui di prigionieri cui i tedeschi sono costretti dall’avanzata degli alleati. Grazie soprattutto alle sue abilità infermieristiche Pahor ne uscirà vivo, sebbene provato dalla tubercolosi. Il paradosso è che viene arrestato come cittadino italiano, “una nazione che, dalla fine della prima guerra mondiale, aveva sempre tentato di assimilare gli sloveni e i croati”, come ricorderà ancora in Necropoli. (E qui non ha forse torto Claudio Magris nell’annotare nell’introduzione che, anziché di “nazione”, Pahor avrebbe dovuto parlare di Stato, o di regime fascista; ma non importa troppo, il senso è chiaro.) Salvatosi poi grazie anche alle cure somministrategli in un sanatorio francese – come scrive in Una primavera difficile, è uno dei “viaggiatori improbabili”, i reduci, cioè, dei campi di concentramento, gente a cui la storia non sembrava voler concedere una seconda vita –, tornerà a Trieste, dove avvierà la sua attività letteraria, fondando la rivista Zaliv, scrivendo una quindicina di romanzi (solo alcuni dei quali tradotti in italiano), oltre a un’infinità di saggi e articoli, e diventando uno dei maggiori punti di riferimento della cultura slovena tanto nel suo paese, quanto in Italia. Benché furiosamente antifascista, aveva il vizio, Pahor, di lottare contro tutte le ingiustizie, da qualunque parte provenissero e chiunque ne fosse all’origine: così, sulla sua rivista denunciò anche (pagando di persona) la strage compiuta contro i collaborazionisti sloveni e croati, prima fuggiti in Austria e protetti dall’esercito britannico, poi deportati e abbandonati all’arbitrio di Tito, che li massacra. Quegli stessi collaborazionisti, sia detto per inciso, che nel 1944 l’avevano consegnato ai tedeschi.

Appresa la notizia della morte, la mia prima reazione è stata quella di recuperare dagli scaffali della libreria e rileggermi Necropoli (Fazi 2008, con traduzione è di Ezio Martin rivista da Valerio Aiolli). È il suo sesto romanzo e il testo forse più rappresentativo. Scritto nel 1966-67, fiction dunque della piena maturità, si situa esattamente a metà della produzione narrativa ed è l’opera che probabilmente Pahor scrive per anni dentro la sua mente prima ancora di decidersi a metterla su carta, aspettando forse di disporre dei necessari strumenti del mestiere, che gli consentiranno di non scadere mai nel retorico e nel melodrammatico. Un libro semplicemente straordinario, che può stare alla pari (o essere in qualche caso addirittura più brutale e incisivo) con certi racconti di Tadeusz Borowski, con il libro su Treblinka di Vasilij Grossman, con Se questo è un uomo di Primo Levi, con Essere senza destino di Imre Kertész, con I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, con le testimonianze raccolte da Dieter Schlesak nel Farmacista di Auschwitz, o ancora, su un piano poetico, con la Todesfuge di Paul Celan, che Pahor peraltro ammirava. E in relazione proprio con l’assenza e il silenzio di Dio lamentati da quest’ultimo è significativa la riflessione in Necropoli secondo cui “non può esistere una divinità buona e onnipresente che sia rimasta testimone muta davanti a questo fumaiolo. E davanti alle camere a gas. No, se c’è qualche divinità, è una divinità che non conosce e non può conoscere distinzione tra il bene e il male.” Il che porta Pahor a concludere che “soltanto l’uomo può dare ordine al mondo in cui vive e cambiarlo.”

A sgombrare qualunque equivoco Pahor dichiara subito, in apertura di romanzo, parlando del campo di Natzweiler-Struthof, sui Vosgi: “Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l’idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po’ di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.” In altre parole, vive da un lato l’impossibilità di esprimere (e di far capire agli altri) le violenze, l’isolamento, le umiliazioni subite, e in generale l’esperienza concentrazionaria, e dall’altro la necessità di chiarirne i meccanismi per evitare che in futuro essa possa ripetersi. C’è nel libro un intercalare significativo, un “non so, non so” cui Pahor ricorre più volte quando vuole cercare d’interpretare le proprie emozioni. Quella del campo è un’esperienza indicibile, che crea una frattura fra chi vi è passato e il resto dell’umanità, ma crea una frattura anche fra chi è scampato alla morte e coloro che non ce l’hanno fatta, nei confronti dei quali il primo si sente perennemente in colpa. Per non aver aiutato a sufficienza quando poteva, per aver approfittato della debolezza altrui, per aver intimamente preferito la morte di un compagno di sventura alla propria, per aver scoperto in seguito, una volta tornato al mondo degli affetti, di essere ancora in grado di godere e gioire della vita. Il rispetto della vita umana, massimo bene, passa in altre parole anzitutto attraverso il rispetto di chi questa vita l’ha brutalmente e barbaramente persa. Scriverne significa in qualche misura saldare un debito che resta però inestinguibile, quale che sia la prospettiva assunta dall’autore, che si divide qui, alternandole magistralmente, addirittura in tre figure, quella del deportato, del visitatore del campo vent’anni dopo (a due riprese, e a distanza di due anni l’una dall’altra), e poi dell’io scrivente in un momento ancora successivo, senza peraltro minimizzare la distanza che il tempo ha creato nella sua stessa mente. In questo senso è calzante una delle qualifiche che sono state date al libro, quella di anti-Bildungsroman.

La particolarità di Pahor è di non fermarsi a vuote espressioni, ma di identificare la vita dell’individuo con la fisicità del corpo, perché è soprattutto il corpo degli oppositori e delle razze cosiddette inferiori che il nazismo aveva voluto fiaccare ed eliminare. Il seguente passaggio illustra bene la centralità del corpo nella sua riflessione: “Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n’era andato insieme al succo vitale che scorreva via dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensiero diventano flebili bagliori di una torcia esaurita, guizzi appena percepibili che di quando in quando si levano dall’inerzia prolungata di cellule intimidite, sono bollicine che vagano a lungo sul fondo del mare e poi esplodono non appena raggiungono la superficie.” Anche a prescindere dalla bellezza e dalla pregnanza della scrittura – ma Pahor non si è mai considerato un esteta o un paladino del bello scrivere – colpisce la precisione asciutta con cui affronta un tema difficile da trattare senza finire in trappole retoriche. Come tanti scrittori anche della generazione successiva – per esempio l’altro sloveno Drago Jančar, autore del suggestivo Aurora boreale (Bompiani 2008), o la croata Daša Drndič – Pahor s’interroga incessantemente e con sobrietà sulle radici del male, su come sia cioè possibile che il male possa impossessarsi di noi tutti, persone non necessariamente psicopatiche o sociopatiche, ma ordinarie, normali.

Nell’opera restante di Pahor, la città di Trieste, e in particolare la Trieste slovena, occupa un posto di primo piano. Fin dall’Ottocento il suo sviluppo è strettamente legato all’afflusso di popolazione dalle campagne slovene, tanto che intorno alla metà del diciannovesimo secolo Trieste diventa la più grande città slovena in termini di popolazione, con una sua casa della cultura, il già menzionato Narodni Dom, diversi giornali, enti e associazioni in lingua slovena. Pahor stesso dirà in un’intervista di far parte di quella comunità slovena che viveva in Friuli-Venezia Giulia dai tempi di Carlo Magno. L’italianizzazione forzata, con l’eliminazione sistematica di quella che la retorica fascista considerava la “barbarie slava”, porterà nel dopoguerra alla controreazione di Tito, che tenta, e quasi vi riesce, di riconquistare la città, fermato alla fine dagli alleati angloamericani. La città e il territorio circostante costituiranno una zona libera fino al 1954, poi Trieste passerà definitivamente all’Italia e il resto alla Jugoslavia. Tornando a Pahor, Trieste è al centro del secondo romanzo, scritto nel 1951, La città nel golfo (Bompiani 2014), in cui racconta, senza nascondere toni autobiografici, del ritorno in città di un soldato nel fatidico 1943, della lotta contro i tedeschi e della Resistenza in città. Con il romanzo successivo, La villa sul lago, del 1952 (Zandonai 2012), ci spostiamo sul lago di Garda nell’immediato dopoguerra, mentre il già citato Una primavera difficile, del 1958 (Zandonai 2009, poi ripubblicato da La Nave di Teseo nel 2016) ripercorre l’esperienza del ricovero nel sanatorio francese, intrecciando il recupero della salute e della fisicità a una tenera storia d’amore con l’infermiera che cura il reduce scampato allo sterminio e lo riconcilia con il mondo. Trieste è anche al centro de Il rogo nel porto, del 1972 (La Nave di Teseo 2020), in cui ritorna l’episodio dell’incendio del Narodni Dom, seguito da Oscuramento, del 1975 (La Nave di Teseo 2022) e Dentro il labirinto, del 1984 (Fazi 2011), dove i motivi sloveni e soprattutto triestini si moltiplicheranno, stabilendo un’unità tematica che è data dall’allontanamento e dal riavvicinamento alla città, in un andirivieni continuo che accomuna un po’ tutti i personaggi principali, peraltro spesso riflessi l’uno dell’altro. Città natale, città di mare e dunque d’incontro, città in decadenza avendo conosciuto tempi migliori, città che unisce terra e acqua, Alpi e Balcani, Occidente e Oriente, Europa centrale e Mar Mediterraneo, con una parte marittima e un entroterra, il Karst, che la imprigiona fra mare e montagna ma che per gli sloveni triestini è anche il luogo delle radici, dell’origine, della tradizione. Posizione e circostanze storiche fanno insomma di Trieste un unicum anche in rapporto alle città slovene, con le quali il legame maggiore è dato da una lingua che Pahor intende difendere con ogni mezzo, con ogni scintilla d’energia. Lingua minoritaria per eccellenza, umiliata e minacciata, lo sloveno si prende la rivincita proprio attraverso l’uso che ne fanno i suoi maggiori scrittori. È l’eterna lotta di una lingua-Davide contro gli idiomi-Golia del mondo, così come del resto tutta l’opera di Pahor ci sembra un inno all’energia e alla capacità dei vari Davide, in cui di volta in volta s’identificano i prigionieri, i malati, gli emarginati di ogni genere, di affrontare e tener testa ai Golia (il militarismo, i vari fascismi, lo stalinismo, il terrore) che hanno contraddistinto la storia del Novecento e che non sembrano aver ancora finito di procurare danni all’umanità.

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