Roberto Cavallini
Allo Spazio WEGIL di Roma

Guardando Pasolini

Una ricca mostra di 160 immagini divise in varie sezioni riassume il controverso rapporto di Pier Paolo Pasolini con la fotografia. Mai completamente amata (perché «non racconta») ma spesso usata per costruire o riaffermare il suo personaggio

Approda a Roma nei locali di WEGIL, a largo degli Ascianghi 5, fino al 10 luglio 2022, dopo una prima edizione genovese, la mostra dal titolo controverso, “Pier Paolo Pasolini – Non mi lascio commuovere dalle fotografie”. Commentare una frase lapidaria, estrapolata da un contesto è sempre un rischio, andiamo per piccoli passi. Nel caso originario, la frase è tratta da una risposta di Pasolini a un lettore di una rubrica giornalistica dove si faceva riferimento a una manifestazione e alla commozione che sarebbe provocata solo ed esclusivamente dai fatti realmente vissuti, non attraverso la trasposizione fotografica.

In un’intervista rilasciata a Italo Zannier, pubblicata su un numero della rivista Fotografia del 1959, Pasolini, alla domanda su quale funzione si possa attribuire alla fotografia nella vita contemporanea, risponde: «Una funzione di divulgazione immediata e di aneddotica attuale ed elegante». E nella stessa intervista, alla domanda su quale fosse il motivo principale del grande successo delle riviste illustrate, risponde: «Le facce e i gesti dei fotografati». Altrove affermerà: «Alle fotografie è sufficiente dare un’occhiata. Non le osservo mai più di un istante. In un istante vedo tutto».

Eppure, malgrado tutte le critiche al mezzo fotografico, malgrado tutte le critiche alla società dei consumi che si stava avviando a grandi passi verso il Boom economico, anche attraverso le riviste illustrate dove facce e gesti dei fotografati sembravano evocare più maschere grottesche stravolte dai flash dei paparazzi che il mondo patinato di via Veneto, malgrado ma malcelata critica alla fotografia che mancherebbe dell’aspetto narrativo, Pasolini, si è prestato molto ad essa, ma esclusivamente come soggetto ritratto, contribuendo così alla costruzione della sua immagine fotografica, un’immagine di se stesso come “personaggio”.

Di questo “personaggio” parla la mostra che consta di 160 fotografie divise per sezioni, nelle quali si alternano immagini di vita privata a momenti pubblici, dove la vita vissuta e la vita artistica si confondono, si sovrappongono, sono inscindibili.

A tal proposito scrive Carla Benedetti: «L’opera di Pasolini può essere considerata come una grande performance, in cui l’oggetto estetico è meno importante della presenza o dell’azione dell’artista. Un po’ come succede nell’arte cosiddetta performativa, o nella body art, qui abbiamo un autore che fa parte integrante dell’opera. Il testo è solo il residuo o la traccia di ciò che l’artista ha fatto: ed è questo “gesto” complessivo a costituire l’opera di Pasolini». Il corpo di Pasolini dunque come parte fondante della sua opera, una grande “opera totale”.

Fotografia di Carlo Bavagnoli

Le fotografie in mostra provengono da vari archivi di agenzie, di singoli fotografi (una trentina) oltre a quelle riguardanti gli anni giovanili che provengono dall’album di famiglia. Peccato che le ultime foto che lo ritraggono nudo, realizzate da Dino Pedriali, nella casa di Chia, poco tempo prima che il poeta fosse ucciso, non siano comprese fra quelle esposte. Sarebbero state un ulteriore, importante elemento per inquadrare la dimensione narcisistica del “personaggio”, un ulteriore conferma delle parole di Carla Benedetti.

L’allestimento romano prevede un’indicazione di percorso che parte dalla Roma delle borgate, inizia con qualche foto scattata durante le pause delle riprese di Accattone nel ‘60, da Carlo Bavagnoli che ritrae Pasolini in giacca e cravatta tra baracche e casette rapide e poi ce n’è una particolare di Cecilia Mangini del ’58 dove Pasolini, sembra non controllare appieno rappresentazione di se stesso, con un ciuffo di capelli “autonomo”, con una postura casuale e insensata, infagottato in un cappotto scuro con le scarpe perfettamente pulite nel bel mezzo del cantiere per la costruzione di via Paola Falconieri tra i grattacieli di Donna Olimpia e il monte Splendore.

Sempre in giacca e cravatta Pasolini si distingue dai ragazzi di vita del Quarticciolo e di Centocelle, anche quando tira quattro calci, una partitella col pallone di pezza. Si sa che il calcio era la sua passione, che veniva prima della boxe e del ciclismo (che tra l’altro ha abbandonato dopo che Fellini gli regalò la fiat 600 per ripagarlo della collaborazione alla sceneggiatura de Le notti di Cabiria), e nella sezione fotografica della mostra, Il Calcio, sono raccolte sia le foto delle partita tra la nazionale attori e cantanti, sia quella tra la troupe di Novecento e quella di Salò, ma non mancano certo le foto di “Stukas” in azione, perché così veniva soprannominato Pasolini per lo scatto bruciante, la rapidità e precisione dell’atto calcistico e per la sua (disperata) vitalità.

La vitalità appunto che lo spinge a mostrare il suo corpo atletico, nervoso scattante, a farsi fotografare da Gabriella Drudi Scialoja, lungo gli argini del Tevere, probabilmente sulla chiatta del Ciriola. Pasolini in costume da bagno povero legato ai lati da laccetti, guarda in macchina, con uno sguardo implorante, quasi a chiedere conferma dell’apprezzamento proprio mettersi in mostra. Ma c’è una fotografia molto delicata sempre di Gabriella Drudi Scialoja che ci mostra un altro Pasolini, di una dolcezza adolescenziale, rilassato, con pantaloni e camicia bianca, seduto su uno scalino, appoggiato ad un muro, non guarda neanche in macchina, sembra quasi che per un momento non si occupi e preoccupi della propria immagine.

«Il volto di Pasolini è duro antico… una faccia che ci parla di una personalità per certi versi riservata, schiva, distante. Ma per altri aspetti appassionatamente tesa a immergersi nel magma della realtà, facendonese coinvolgere. E travolgere: fino all’estremo». Scrivono i curatori Marco Minuz e Roberto Carnero nell’introduzione alla ricca sezione Lo sguardo, dove numerosi fotografi si sono cimentati davanti a quel volto.

Le fotografie raccontano sempre di più di quanto non sia nelle intenzioni del fotografo o del fotografato e nelle foto di archivio, ulteriori significati si aggiungono e si stratificano nel tempo. È interessante osservare come negli anni, a parte le foto dell’album di famiglia che attengono ad un altro rituale, l’abbigliamento di Pasolini sia mutato, non faccio riferimento alla foggia più o meno superata delle giacche o di altri capi, faccio riferimento al fatto che negli anni ’50 e primi ’60, Pasolini si vestiva in giacca e cravatta, in abiti da borghese, mentre negli anni successivi, quelli che vanno a coincidere, più o meno, col trasferimento nella casa di via Eufrate, ha cominciato a seguire una moda giovanilistica, fatta di jeans e camicie militari, proprio quegli abiti che avevano a suo dire segnato il passaggio  antropologico dei suoi ragazzi di vita verso la deriva consumistica.

Emblematiche sono le foto di Listri, che lo ritraggono in mini-pull e camicia con collettone, nel ’73, in cui la drammaticità del volto, ormai segnato dalla marcata sporgenza degli zigomi e le numerose rughe stridono con quell’abbigliamento da ragazzetto, vestito da Fulgenzi a via del Babuino.

Altrettanto interessante è la fotografia di Elisabetta Catalano che ritrae la coppia Laura Betti (sua moglie non carnale) e Pier Paolo Pasolini abbigliato con Jeans, giubotto e camicia americana di qualche prigione, abbottonata al colletto, con una cravatta dalla fantasia floreal-cachemire. Prigioni americane e figli dei fiori. La Betti in primo piano non fatica ad assumere una espressione strafottente guardando in macchina e Pasolini in secondo piano, guarda nel vuoto con una espressione di totale tristezza.

Un capitolo a parte è quello che riguarda La Madre, dove in ogni fotografia l’espressione di Pasolini è carica di tenerezza e di pace fino a riuscire a chiudere gli occhi mentre la madre gli cinge una spalla, come nell’immagine scattata da Vittorio La Verde nel ’68, nella casa di via Eufrate.

Fotografia di Piergiorgio Branzi

Le case in cui abitò Pasolini a Roma furono cinque. La prima a piazza Costaguti, al ghetto, ospite di amici di parenti, la seconda in via Giovanni Tagliere dietro il carcere di Rebibbia, la terza in via Fonteiana vicino a Donna Olimpia, la quarta in via Giacinto Carini nello stesso palazzo dove viveva la famiglia Bertolucci. Lì, a Monteverde vecchio, Pasolini si concesse all’obiettivo fotografico, in una casa che si avvicinava al sogno di quella desiderata sul Gianicolo tra villa Pamphili e villa Sciarra e successivamente nella casa “di proprietà” in via Eufrate all’Eur.

Gli occhiali da sole è una sezione dedicata alle fotografie scattate in varie occasioni dove i versi, seppur successivi di qualche anno, di Battiato descrivono il vezzo pasoliniano di indossare occhiali da sole anche in luoghi chiusi o in ore notturne perché, in fondo, sarà pur vero che conferiscono “più carisma e sintomatico pensiero”. Non è un caso che una nota casa americana, produttrice di occhiali abbia messo in commercio “il modello Pasolini”.

Le fotografie che riguardano la sua produzione cinematografica Davanti e dietro la macchina da presa sono numerose e lo ritraggono su vari set, alcune durante le riprese altre in costume come quella scattata da Mimmo Cattarinich che ritrae il regista nei panni di Geoffrey Coucher nel film I racconti di Canterbury.

Ricche d’immagini sono le sezioni degli addi. L’addio a Roma e L’addio a Casarsa delle Delizie, e la mostra si chiude con una foto di gran delicatezza scattata da Piergiorgio Branzi nella casa di Pier Paolo Pasolini nel 1995, dove, in una stanza disadorna con un divanetto e un ritratto di Pasolini giovane appeso alla disadorna parete, una folata di vento alza una tenda illuminata dal sole. Anni fa, Branzi, mentre mi mostrava quella foto, disse: «guarda, sembra che sia venuto a salutarmi».

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