Francesca Marciano
Ceppo 2022: tre parole-chiave sul racconto /3

Equilibrio, Onestà, Economia

Proprio come la vita, il racconto non dà risposte, ma moltiplica le domande senza rassicurarci, ma regalandoci piccole epifanie e intuizioni. L’intervento che Francesca Marciano, vincitrice del Premio Ceppo Selezione Racconto, ha tenuto a Pistoia

La Giuria letteraria della 66° edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo dedicato al racconto (www.iltempodelceppo.it) ha assegnato a Francesca Marciano e al suo Animal Spirit (Mondadori) il Premio Ceppo Selezione Racconto «per aver scritto sei racconti esemplari di ciò che il canone del racconto richiede» con illuminazioni dallo scarto improvviso, senso del ribaltamento, lampi imprevisti (per la motivazione completa: urly.it/3ny3c). A Francesca Marciano, come agli altri premiati, Paolo Fabrizio Iacuzzi (direttore dell’Accademia e del Premio Ceppo) ha chiesto di scrivere una breve “lecture” sul racconto a partire da tre parole chiave da lei stessa individuate.

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Equilibrio
Il racconto è un genere purtroppo poco frequentato in Italia (e non solo), cosa che davvero mi stupisce. Mi chiedo se sia perché i lettori non si fidano di storie brevi, come se la brevità fosse un difetto, una mancanza di cura – o peggio – una scorciatoia, o forse perché in una raccolta c’è il sospetto che alcuni racconti siano meno belli di altri. Alcuni lettori addirittura lamentano che nel racconto non ci sia abbastanza tempo per affezionarsi ai personaggi. A peggiorare lo stato di salute del racconto, neanche gli editori amano questa forma, dato che i racconti vendono meno dei romanzi. E così la storia breve langue. In realtà, come dimostra la bellissima antologia curata da Jhumpa Lahiri Racconti italiani (Guanda), quasi tutti gli scrittori italiani del Novecento hanno scritto racconti, infatti l’antologia ne conta quaranta. Credo che chiunque scriva possa isolare il momento nella sua vita in cui ha impugnato questa decisione: voglio scrivere, scriverò, sarò uno scrittore. Almeno per me, questa affermazione – così roboante – è stata una presa di posizione, una sorta di responsabilità. Nel mio caso, è stata una presunzione vera e propria perché ho avuto questa certezza prima ancora di aver scritto veramente qualcosa. In quel periodo, quando avevo da poco passato i vent’anni, leggevo molti scrittori tra i quali Katherine Mansfield, Paul Bowles, Mavis Gallant, Raymond Carver, Alice Munro. Sono stati proprio i loro racconti a darmi il coraggio di prendere quella decisione così presuntuosa e per molti versi audace. Devo molto a quelle letture, perché hanno avuto il potere di trasmettermi qualcosa che mi avrebbe sostenuto anche nei momenti in cui perdevo la speranza di riuscire a scrivere (una speranza che continuo a perdere e a ritrovare ancora oggi!). Ricordo di aver letto e riletto il racconto La felicità della Mansfield, tenendo il fiato sospeso, anche se per tre quarti della storia non sembrava che succedesse nulla, se non la descrizione accurata di una cena mondana nella bella casa della protagonista. Per poi far precipitare tutto nelle ultime tre righe, con una sola immagine che rovesciava il senso di quella cena intera, di quella sensazione di felicità domestica, di bellezza e di benessere. Ecco, la prima parola che per me definisce il racconto sta proprio in quell’equilibrio delicatissimo, che improvvisamente, a causa di un piccolo dettaglio, un’immagine, una parola, può spezzarsi, capitolare, ribaltare o far esplodere con un gran fragore quello che abbiamo appena letto. Si tratta di un meccanismo di precisione come quello degli orologi. E perché il meccanismo funzioni e giri, i pesi e le misure di ogni frase vanno dosati e distribuiti con grandissima attenzione. È come se lo scrittore dovesse lavorare su una miniatura, o una formula chimica, dove ogni ingrediente ha la sua proporzione. 

Francesca Marciano

Onestà
Per sua natura, il racconto non ha bisogno che si tirino le fila della trama, che ci sia una conclusione per tutte le linee narrative, che si diano le risposte alle domande. Ed è questa anche la cosa che personalmente più mi attrae verso questa forma: da una parte proporzionata al millimetro, ma dall’altra anche sfacciatamente inconcludente. Contrariamente al tracciato del romanzo, disegnato e scandito per condurre il lettore a una conclusione risolutiva, che non lascia nulla in sospeso, che sistema tutti i personaggi in modo definitivo, il racconto non necessariamente conclude, ma apre. Scopre un sentimento, una sensazione, e li lascia galleggiare. Mentre la trama del romanzo è robusta, quella del racconto può essere evanescente, ineffabile. Se il romanzo risponde alle domande del lettore, il racconto è spesso di per sé aperto. Perché questo accada, lo scrittore deve compiere quello che Virginia Woolf definisce un atto di onestà.Sfuggendo alle convenzioni del genere al quale il romanzo appartiene (giallo, poliziesco, fantascienza, distopico) e alle regole che una lunga trama richiede, il racconto è più vicino alla vita così com’è, alle sue incertezze, alle sfumature del quotidiano, ai piccoli accadimenti, alla sensibilità interiore. E dunque, proprio come la vita, il racconto non dà risposte, ma moltiplica le domande senza rassicurarci, e in questo senso non ci inganna con artifici o meccanismi forzati. Ci regala il sentimento che proviamo tutti i giorni: le piccole epifanie, le intuizioni. Quei miracoli quotidiani a cui magari non prestiamo attenzione, che il racconto invece indaga, ingrandisce con la sua lente, ne rivela i contorni, ci fa da specchio. Dunque nel racconto non si manipola il lettore, né si piegano i personaggi per farli aderire agli snodi obbligati della trama, ma in un certo senso, attraverso quel dosaggio di pesi e misure e l’equilibrio a cui accennavo prima, si sfugge all’artificio per preferire l’aderenza alla vita così com’è. Come dice la Woolf «se ha senso dire che non ci sono risposte e che la vita, quando è esaminata con onestà, ci pone una domanda dopo l’altra, allora bisogna lasciare queste domande risuonare all’infinito anche dopo che il racconto è arrivato alla sua conclusione». 

Economia
Un racconto non è una maratona, ma una corsa dei cento metri. Tutto si consuma in poco tempo. E così come per gli sportivi che devono minimizzare l’attrito con l’aria o con qualsiasi cosa possa frenare la loro corsa, anche il racconto deve scrollarsi di dosso tutto il superfluo per essere il più efficiente possibile, senza però correre il rischio di sembrare affrettato o confuso. L’economia nella scrittura di un racconto è dunque una grande sfida. La partenza deve essere una batteria al massimo della sua carica, in modo che la sua energia si sprigioni già dal suo incipit. Per questo quando scrivo un racconto, sento di essere pronta ad affrontarlo solo se ho in mente la frase magica con cui iniziarlo, frase che in qualche modo – anche sotterraneo – già contiene l’urgenza che mi ha spinto a scriverlo, l’urgenza che motiva i personaggi. I protagonisti sono come atleti ai blocchi di partenza, colti nel momento in cui l’intensità del momento che stanno attraversando è al massimo, o la scelta che stanno per affrontare è alle porte. 
Tutti quegli elementi che in un romanzo trovano lo spazio per essere raccontati e trapelare lentamente, capitolo dopo capitolo, nel racconto vanno disseminati con grande economia in ogni frase. È un lavoro di precisione un po’ come quello di un architetto che progetta l’interno di una barca sfruttando ogni spazio. L’importante però è che alla fine il risultato sia armonioso e naturale. 
Allo stesso modo, in un racconto, vista la brevità, bisogna disseminare i dettagli necessari per lo sviluppo della storia dovunque si può, ma lo si dovrà fare con grande cura, perché alla lettura non si senta lo sforzo, non salti agli occhi che quell’informazione necessaria è scorporata dal resto. L’architettura del racconto è un lavoro complesso, nel quale si mescolano tante parole che sembrano una all’opposto dell’altra – precisione e intensità, onestà e inconcludenza, libertà ed economia – ma è proprio da questi opposti che si crea l’alchimia che rende l’arte del racconto così preziosa sia per chi legge che per chi scrive. 

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