Maria Luisa Paolillo
Le foto di Andrew Kent in mostra a Milano

Bowie, vita di un mito

In “The Passenger”, le immagini più emblematiche della poliedrica e tormentata rock star. Colte dal fotografo-amico con discrezione e maestria, ponendo «sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore»

I miti incutono rispetto, ammirazione, timore. Vivono in una dimensione parallela e irraggiungibile, onirica, patinata e leggendaria. I miti non sono umani. Chi, apprestandosi ad andare a visitare la mostra The Passenger, in esposizione presso il Teatro degli Arcimboldi di Milano (https://www.teatroarcimboldi.it/fat-event/david-bowie-the-passenger/?sd=1648926000&ed=1656277200 ) e visitabile fino al 26 giugno 2022, si aspettasse l’apologia di un mito, resterà insoddisfatto. Oppure piacevolmente sorpreso. Nell’ottobre del 1975 l’allora giovanissimo giornalista Cameron Crowe condusse l’amico, e già affermato fotografo delle rock star, Andrew Kent in uno studio di registrazione di Los Angeles a incontrare David Bowie, alla ricerca di un fotografo che lo seguisse nel suo nuovo tour in Europa. David si era da poco spogliato definitivamente, o almeno così credeva, dagli asfissianti panni di Ziggy Stardust, che l’avevano avvolto come una seconda pelle facendogli perdere il senso della propria identità. In overdose da successo, pur non sapendo chi fosse David Robert Jones e nemmeno chi fosse David Bowie, mentre andava calandosi nel nuovo personaggio The Thin White Duke, il sottile Duca Bianco, intraprendeva anche la sua personale lotta per la sopravvivenza e superare così la pericolosa situazione che lo stava distruggendo. E per farlo aveva assoluta necessità di lasciare la venefica spirale americana e tornare nella sua natia Europa.

Da “The Passenger”, foto @ ML Paolillo

È in questa delicata e difficile fase della vita del diffidente David che si inserisce Andrew Kent conquistando, fin da quella prima sera, la sua fiducia, forse grazie alla semplicità e al suo carattere disponibile e sensibile. Nascono così, da quella lunga notte tessuta di fitti dialoghi, un sodalizio professionale solido e duraturo, e un’amicizia che andrà ben oltre quel tour europeo e durerà fino e oltre la morte di Bowie. Un rapporto sincero che ci ha regalato le immagini più belle e più vere dell’intera vita e carriera di David. Lungo il solco della più sobria tradizione di street e reportage Andrew Kent, lontano dal manierismo e da sterili ricerche di perfezione tecnica che aspirano a un sensazionalismo fugace, ci racconta un uomo. Un uomo artista mentre, sul palco, si immedesima nel suo nuovo personaggio. Un uomo privilegiato mentre passeggia, come un odierno normale turista, in una Mosca blindata e proibita. Un uomo normale con gli amici a prendere un treno per una meta apparentemente qualunque, a cena a festeggiare un compleanno o in relax informale, a letto a leggere un libro o su una terrazza a sorseggiare un bicchiere di vino. Momenti che possono appartenere alla vita di chiunque, anche alla vita di un mito. 

Gli scatti di Kent, che talvolta fanno bonariamente l’occhiolino a memorabili immagini di Robert Frank, non destano uno stupore effimero, non stordiscono lo spettatore e non scappano via. Quelle di Kent sono immagini che restano impresse negli occhi e visibili nella mente ben oltre il momento più o meno lungo durante il quale ci si trova davanti a esse. Sono scatti in cui è ben chiaro e tangibile l’insegnamento di Henri Cartier-Bresson, che Kent sicuramente conosceva: «Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere». La fotografia è molto più di una semplice immagine, è «il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento»

Da “The Passenger”, foto @ ML Paolillo

La scelta del bianco e nero, che in un fotografo non dovrebbe mai essere casuale o stilistica, trova dunque la sua ragione nel momento storico della vita dell’artista e nell’approccio essenziale e narrativo di Kent, che sottolinea così, nel contempo, il clima mondiale politico e sociale di piena guerra fredda. La scala dei grigi, anche quando viene ridotta a poche gradazioni, non aggredisce lo sguardo ma lo accarezza insinuandosi dolcemente attraverso la pupilla e andando ad adagiarsi sul suo fondo. E così fa il colore, usato da Kent più raramente e prevalentemente per momenti privati con gli amici o di intimità di David con se stesso, presentandosi anch’esso morbido e sinuoso, quasi sensuale e mai aggressivo. Gli scatti di Andrew Kent, mentre ci restituiscono un uomo in bilico tra la ricerca di momenti di apparente normalità e il suo status di star del rock, travolto da tsunami di fans in delirio, ci raccontano anche di un uomo fotografo, quello che dietro la macchina è riuscito con discrezione e delicatezza, e forse proprio grazie a esse, ad accedere al David più intimo e privato, al David giovane uomo alla ricerca di sé stesso. Un fotografo, Andrew Kent, mai invadente o sfacciato, immune da volgari paparazzate ma che con occhio deciso e mani pronte, ha saputo darci le immagini più emblematiche e significative di uno dei personaggi più poliedrici e tormentati della scena del rock di tutti i tempi. 

Ora, al chiudersi di questa memorabile esposizione, non resta, a noi ancora viaggiatori e passeggeri di questa vita, che attendere con impazienza la prossima primavera quando Thomas Jerome Newton tornerà a raccontarsi nella versione italiana di Lazarus, l’opera rock che, insieme all’album Blackstar costituisce il corpus artistico con cui il grande David Bowie ha voluto salutare il suo pubblico prima di intraprendere il suo viaggio, citando Battiato, oltre «la porta dello spavento supremo». 

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