Nicola Fano
A Ca' Pesaro, a Venezia

Afro e Artaud

Il "teatro della crudeltà" e la trance delle teorie di Artaud possono essere uno strumento adatto a comprendere la pittura di Afro Basaldella. Nell'immediatezza del gesto e nel suo significato psicoanalitico c'è il senso dell'arte informale

Nel 1927, quando venne girato, il film Napoléon di Abel Gance sembrava destinato ad aprire le porte al futuro. Al di là della sua essenza di kolossal ante litteram – più di cinque ore di film, centinaia di comparse, decine e decine di attori di primissimo rilievo, cavalli, armi, navi e chi più ne ha più ne metta – l’attenzione generale era puntata sul sistema polyvision: molte scene erano state girate per essere proiettate su tre schemi sistemati in posizione circolare in modo da avvolgere lo spettatore. In Francia, dove il cinema era nato e dove Napoléon era stato girato, quella varcata da Abel Gance sembrava la frontiera tecnologica del domani di quella strana arte; ed era la frontiera della moltiplicazione delle immagini. E invece, dall’altra parte del mondo, il cinema, in quegli stessi mesi, prese un’altra strada. The jazz singer, il primo film sonoro, rese inutile l’azzardo di Abel Gance: il futuro era nelle voci, non nelle immagini. Spesso è così che procede la comunicazione creativa, per scartamenti: si pensa di cogliere un bersaglio e invece se ne centra un altro. O nessuno.

Ma un’altra importante nemesi si consuma in Napoléon: quella di Antonin Artaud. Una delle scene più celebri del film è quella in cui lo spettatore assiste alla morte di Marat interpretato, appunto, da Artaud. Con un eccesso di realismo pittorico, attore e regista in quella scena ricostruirono alla perfezione il celebre dipinto di Jacques-Louis David dove il leader rivoluzionario è abbandonato in una vasca, con un braccio penzoloni e la testa fasciata. Inconfondibile. Nel film, Artaud appare come specchiato nel dipinto, ma nella medesima posa.

Antonin Artaud in “Napoléon” di Abel Gance

S’era nel 1927, abbiamo detto, e Artaud era ancora un protagonista di grido del teatro surrealista: di lì a pochi anni, una conclamata instabilità mentale e il potente innamoramento per il teatro orientale lo avrebbero indotto a proclamare il primato del Teatro della crudeltà. Ossia qualcosa di letteralmente opposto al realismo della scena di Napoléon: anche in questo la magniloquenza di Abel Gance imboccò la strada sbagliata per il futuro. È davvero singolare come quel genio del cinema abbia sbagliato tutte le previsioni!

“Teatro della crudeltà” è una delle etichette più gettonate quanto lessicalmente incongrue della cultura novecentesca. Ovvio che Artaud non intendeva promuovere un teatro violento o crudele, né pensava a quel che sarebbe stata, in futuro, la squallida moda dell’horror. Nei suoi propositi, il nuovo teatro doveva essere crudele nei confronti della tradizione, non tanto negandola tout court, ma privilegiando altre ragioni emotive, altre dimensioni del linguaggio rispetto a quelle fin lì note e consolidate da millenni in Occidente. Il perdurare di un profondo disagio mentale, indusse Artaud a dare alla sua idea di teatro due direttrici fondamentali: una (quasi) psicoanalitica e una (sostanzialmente) sanitaria. Il teatro della crudeltà, infatti, si concentra sull’attore, sulla sua gestione del corpo e, in ultima analisi, sulla sua capacità di raggiungere la trance nel corso della rappresentazione. Proprio la trance, ossia la perdita di controllo razionale su di sé e sul proprio corpo, rappresenta l’essenza del teatro di Artaud; ed è ciò che egli trasse dalla conoscenza del teatro balinese.

Convenzionalmente, esso consiste in una danza rituale nella quale gli uomini combattono (e immancabilmente vincono) il drago del male. Ma per affrontare e vincere la loro battaglia, questi specialissimi danzatori-attori devono ripetere ossessivamente gli stessi gesti per ore (incalzati da un ritmo fisso, monotono, esso stesso ossessivo) fino a raggiungere la trance, appunto. Ebbene, in questo abbandono della sfera razionale da parte di interpreti che affidavano solo al proprio corpo la riuscita emotiva della rappresentazione, Artaud vide l’essenza dell’atto creativo teatrale.

Insomma, si tratta di uno slittamento totale nel terreno dell’irrazionalità, sia pure sotto stretto controllo. Come è tipico della pittura di Afro Basaldella.

Di questo atipico e solitario artista, Afro, (ce n’è una preziosa testimonianza, in questi mesi, a Ca’ Pesaro, a Venezia, in una mostra dedicata alla sua produzione negli anni dai Cinquanta al 1970) mi ha sempre colpito un elemento ribadito da tutti i critici che gli sono stati vicini (Nello Ponente e Cesare Brandi, soprattutto): ossia la rapidità del suo gesto pittorico; la velocità con la quale egli prima progettava poi definiva e infine completava le sue opere. Grazie a un’idea molto precisa del risultato da ottenere, dicono alcuni esperti. Grazie a una memoria ottica prodigiosa, aggiungono altri. Ma queste affermazioni non risolvono il problema: qual è il risultato cui Afro aspira? E facendo leva sulla memoria di cosa?

Afro Basaldella (1912-1976), figlio e fratello d’arte, ha vissuto una stagione felicissima, diventando uno dei maestri riconosciuti dell’arte mondiale, negli anni Cinquanta quando le sue opere influenzavano tutte le nuove ricerche di qua e di là dall’Atlantico, a Roma come a New York, a Parigi come a Monaco: una magnifica fiammata che però portò l’artista, nella fase finale della sua vita, a rimettere mano alle sue certezze, se non al suo stile. Nato, artisticamente, nel novero dei pittori che a Roma, negli anni Trenta, cercarono di rinnovare l’arte figurativa (Sironi, Cagli, Mafai, il giovane Capogrossi), lentamente se ne discostò, passando prima per il cubismo puro (a Ca’ Pesaro ci sono due rare e belle testimonianze di questa stagione) e poi per una nuova pittura dove forme e colore la fanno da padrone. Al punto che egli, a partire dai secondi anni Quaranta, ripeté più volte di non considerarsi un astrattista quanto un riformatore della pittura figurativa. Ma è negli anni Trenta, proprio mentre Artaud definiva i contorni del suo Teatro della crudeltà, che Afro pose le basi del suo personalissimo stile, della sua predilezione per quella che è stata chiamata arte informale.  

Afro Basaldella, “Il sigillo rosso”, 1953

La sua rivoluzione, infatti, si ricollega direttamente a Kandinsky ma, nella libertà del padre dell’astrattismo, Afro recupera una sorta di ordine (dei colori e delle forme, appunto) che alla fine della sua parabola, negli anni Settanta del secolo scorso, lo porterà a definire gli spazi come nell’invenzione di nuove prospettive geometriche fatte di campiture e contorni certi. Il riferimento a Kandinsky, benché Afro non si sia mai definito astrattista, è importante: la teoria “spirituale” dell’arte, in base alla quale è la pura relazione tra i colori a produrre reazione emotiva nel pittore e nello spettatore, è portata all’estremo da Afro. In lui, la pittura diventa un linguaggio totalmente autonomo, slegato da ogni verosimiglianza, e proiettato verso l’inconscio (ciò che Kandinsky, prima di conoscere la psicoanalisi chiamava “spirituale”). Questa, per Afro, la sostanza dell’arte informale.

Ecco allora che la rapidità d’esecuzione assume un significato molto particolare. E chiarisce anche il senso delle domande dalle quali siamo partiti: qual è il risultato cui puntare?, a quale memoria fa riferimento l’artista? Il risultato è la rappresentazione tramite forme e colori di un’emozione specifica. La memoria è quella di un’immagine, una situazione, un luogo nei quali quell’emozione specifica è venuta a galla nella coscienza dell’artista. Perché l’atto di dipingere è come un automatismo che recupera un linguaggio primordiale privo di riferimenti razionali. Ossia: se, per Picasso, il cubismo era un modo di guardare, per Afro la pittura è un modo di pensare. O un modo di vivere i propri pensieri.

Ecco il perché della lunga premessa su Antonin Artaud. Per l’attore francese il teatro, mediante la trance, era un modo di pensare e vivere nel profondo di se stesso. Nei rari filmati che riprendono Afro nell’atto di dipingere si vede un signore distinto, elegante (la tv d’altri tempi non ammetteva deroghe…) impastare appena appena il colore spandendolo subito, con mano svelta quanto sicura, sulla tela. Naturalmente, si tratta di una “finzione televisiva”, nel senso che l’artista sarà stato indotto a “recitare” la sua attività davanti alla telecamera. Ma anche in questa forma solo rappresentativa del vero, si intuisce la rapidità del gesto, la sicurezza, la volontà di affidarsi all’estro emotivo. Seppure nell’ambito di una disciplina ferrea. Proprio come una trance dove al rigore della ripetizione dei gesti dell’attore si sovrappone totale perdita di razionalità. Per ricostruire l’ordine altrove. E, insomma, quell’altrove che Artaud inseguiva con la sua controllata follia, Afro lo ha fissato per l’eternità nei suoi magnifici quadri. Di fronte ai quali lo spettatore ha un solo vincolo: abbandonarsi all’emozione della forma e dei colori. Come in una fugace trance.

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