Luca Fortis
Al Teatro Vascello di Roma

Niobe e la felicità

Stefano Napoli presenta il terzo capitolo della sua trilogia dedicata alle dark queen. Dopo Elena e Cleopatra, è la volta di Niobe: «Nella vita umana il dolore è inevitabile e improvviso e l’uomo può solo sopportarlo senza lasciarsene abbattere»

Il 27, 28 e 29 maggio andrà in scena al teatro Vascello Vanity Dark Queen: Niobe regina di Tebe. Dopo i lavori su Cleopatra ed Elena di Troia, ecco la terza “dark queen” della serie inventata da Stefano Napoli.

Niobe, l’antica regina di vanità, che volle farsi anche felice per il numero dei suoi figli, contro l’antica saggezza per cui solo gli dei potevano dirsi felici. “Cose umane agli umani”. Ciò voleva dire: accetta l’incostanza della sorte e impara il limite. Ribelle al pari di Prometeo, trasformata in roccia di lacrime, Niobe segnava il confine da non superare. Nel tempo, la sua immagine trascolora fino a diventare, con i suoi figli, decorativo elemento di giardini e fontane. Cosa può dirci ancora questa mater dolorosa? Forse in lei, come in un prisma, possiamo vedere riflessi il nostro orgoglio, la nostra fragilità, la nostra paura. 

Lo spettacolo vede la partecipazione di Paolo Bielli, Francesca Borromeo, Alessandro Bravo, Giacomo Galfo, Filippo Metz, Simona Palmiero, Luigi Paolo Patano, disegno luci Mirco Maria Coletti, costumi Sasà Salzano, supervisione sonora Federico Capranica, regia Stefano Napoli, produzione Colori Proibiti. Ne parliamo, appunto, con Stefano Napoli, alla guida del Gruppo Colori Proibiti dal 1980 e regista dell’opera.

Dopo Cleopatra ed Elena di Troia hai deciso di concludere la tua trilogia sulle Dark Queen con il mito di Niobe, come nasce questa scelta?

C’è un film di R.W. Fassbinder, s’intitola Un anno con tredici lune. È una storia molto drammatica e non sto a raccontarla, ma c’è un momento del film in cui si citano delle date. Sembrano date di nascita e di morte, come quelle che si mettono sulle lapidi, ma ci viene detto che sono gli anni in cui quelle persone sono state felici. E quegli anni sono sempre molto pochi! Ecco, Niobe mi ha portato a riflettere sulla felicità. Lei è una madre felice, sazia dei suoi 14 figli, se ne vanta davanti agli dei e viene punita. Tutti i suoi figli vengono uccisi dalle frecce di Apollo e Artemide. Penso che per i Greci il senso del mito fosse chiaro: nella vita umana il dolore è inevitabile e improvviso e l’uomo può solo sopportarlo senza lasciarsene abbattere. Niobe mi ha affascinato per questo suo voler essere felice contro tutto e tutti. Il che ne fa una ribelle di classe.

Cosa c’è di Niobe che hai trovato anche in Cleopatra e Elena?

Sono regine, avvolte da un’aura di perfidia e di cupa grandezza. Le accompagna una pessima fama. Sono creature ribelli, determinate, volitive. In quanto figure di potere, bellezza, vanità mi consentono di mettere in scena passioni e disinganno, insomma ciò che mi attrae dell’essere umano.

I colori, gli oggetti, la musica hanno sempre un ruolo centrale nelle tue opere.

Hai presente la favola di Pollicino? Sono i tanti sassolini che mi consentono di non perdere la strada. Scherzo! Considero colori, oggetti, musica parte integrante dello spettacolo: ne costituiscono l’ossatura e sono scelti con molta attenzione. Ad esempio, a volte, le parole di una canzone sono il commento alla scena che si sta svolgendo. Ovviamente chi guarda non è obbligato ad ascoltarla così, ma se vuole può farlo. I colori sono per me come luci che si accendono e hanno sempre, credo, una risonanza emotiva. Gli oggetti poi sono chiamati a suscitare ricordi o evocare immagini, che custodiamo dentro di noi.

Qual è l’emozione più forte con cui vorresti che lo spettatore del tuo spettacolo uscisse dal teatro?

Premesso che non vorrei mai imporre qualcosa allo spettatore, mi piacerebbe che uscisse di corsa, ma non per noia, come purtroppo a volte avviene a teatro, ma per l’urgenza di vivere. Vorrei che dal mio spettacolo lo spettatore uscisse con più amore per la vita. Programma presuntuoso, Vero?

Come definiresti il tuo teatro?

Sul corpo è scritta la nostra storia e il corpo ha il suo linguaggio che, a mio parere, è più immediato ed eloquente di tante parole. Naturalmente non le escludo ma nel mio teatro cerco di far dire al corpo quello che l’anima a volte tiene stretto dentro di sé, per pudore, paura, dimenticanza.

Come scegli gli attori della tua compagnia?

Come in un “coup de foudre”! Diciamo che ci scegliamo insieme. Spesso hanno visto un mio spettacolo e mi hanno chiesto di partecipare. Ho grande affetto e stima per loro: senza di loro non esisterebbe il mio teatro.

Stai già pensando a qualche progetto per il futuro?

Ancora no. Per ora mi faccio bastare il fatto di rappresentare il mio nuovo spettacolo in un teatro come il Vascello, che ha una così lunga e straordinaria storia teatrale.


Le fotografie sono di Dario Coletti

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