Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il ritorno di Pugliese

Due ristampe importanti restituiscono all'attenzione generale altrettanti libri da non perdere: dal bellissimo "Malacqua" di Nicola Pugliese a "Gallina" di Fabrizio Ottaviani. Due storie che giocano con la parola e con le invenzioni del linguaggio

Di fronte alla ripubblicazione di un libro già uscito anni prima, alcune domande sorgono immediate. La prima è di tipo psicologico: ci si può chiedere cioè cosa significhi, per l’ego e la propriocezione dello scrittore, vedere una sua opera che torna sugli scaffali delle librerie, in una nuova veste, con una copertina inedita e magari anche una maggiore cura editoriale. (A me è successo con uno dei miei romanzi, e so per certo quanto la sensazione che si prova sia singolare, come se un pezzo di esistenza dato per archiviato tornasse prepotentemente alla ribalta.) L’altro aspetto è naturalmente quello della promozione e della distribuzione: spesso si tratta di opere che per qualche motivo (e ce ne possono essere tanti) hanno sofferto, al momento della loro prima uscita, di un’ingiusta disattenzione del pubblico e/o della critica, e che quindi era sensato e magari perfino urgente riproporre e rivalutare. Come che sia, è un fatto che due delle migliori proposte editoriali degli ultimi mesi siano appunto delle riedizioni, fatte uscire oltretutto a parecchi anni di distanza dalla prima pubblicazione.

Comincerò con Malacqua di Nicola Pugliese, giornalista napoletano morto a sessantotto anni nel 2012, che aveva pubblicato in origine il suo romanzo per Einaudi nel 1977, in una collana diretta da Italo Calvino e con il suo incondizionato appoggio. (Tanto incondizionato che Calvino incasserà anche il rifiuto opposto da Pugliese alle sue proposte di correzione del testo.) Già ristampato da Pironti nel 2013, come da disposizioni testamentarie di Pugliese, il libro esce ora una terza volta per Bompiani – in cerca di un nuovo pubblico, che siamo certi troverà – con un’accurata introduzione di Francesco Palmieri.

Nicola Pugliese

Come già con Buzzati nel ricordo di due settimane fa, siamo di fronte a un giornalista prestato alla scrittura, o a uno scrittore prestato (per un certo tempo) al giornalismo. Cronista e redattore del quotidiano Roma all’epoca in cui ne era proprietario Achille Lauro, Pugliese riesce a isolarsi dal caos redazionale e a comporre, in appena quarantacinque giorni, un romanzo intenso, bellissimo, di rara ricchezza ed eleganza stilistica. Forse non è il caso di gridare al capolavoro, o di accostarlo a Joyce, Musil, Kafka o altri, com’è stato fatto, ma dovremmo semplicemente accogliere con gratitudine e piacere un libro che, pur esulando dal mainstream narrativo, o forse proprio per questo, ha rappresentato una graditissima sorpresa e dopo tanti anni ancora riesce a coinvolgerci profondamente. Come rivela subito il sottotitolo, non si tratta qui d’altro che di “quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un accadimento straordinario”. Niente di più, niente di meno: pioggia inarrestabile e stordente, da un lato, e dall’altro l’attesa di qualcosa, qualcosa che probabilmente non avverrà (o forse sì, se l’accadimento straordinario lo cerchiamo nelle piccole cose di ogni giorno). Il pregio del libro non sta tanto nelle vicende narrate, che pure lasciano trapelare la notevolissima capacità dell’autore di creare simboli e fantasmagorie (le bambole che nella Sala dei Baroni si mettono a gridare, le monetine da cinque lire che suonano come una radio), quanto nello stile, avvolgente, ripetitivo, spiraliforme, affatto personale. Per darne un’idea, di questo stile, si può citare del romanzo un passaggio qualunque, tanto questo è compatto, persuasivo e costante (come la pioggia) nel suo incedere; propongo questo, ad esempio, tratto dalle pagine iniziali: “Mentre di sopra le strisce blu crescevano, si moltiplicavano, s’ingrossavano tutte, e nero, quasi nero, forse la pioggia: al di là del vetro l’aria salmastra, l’odore della nafta, e questa estraneità, isolamento triste, dolcissimo, gli altri di dentro a sopravvivere e a risolvere, sì, risolvere.” Echi gaddiani, certo, ma anche di scrittori più vicini, come quel D’Arrigo del quale Pugliese sceglie le parole da mettere in esergo al libro, una citazione per nulla casuale in cui tra l’altro si afferma che “scappare è vergogna ma è salvazione di vita”. E questa sembra essere stata anche la regola aurea di Pugliese, che, con un misto di consapevolezza del proprio valore, da lui peraltro mai esagerato, e vergogna per non essere stato pienamente capito, appunto scappa – dal giornale e da Napoli – e si salva in tal modo la vita, legandola da quel momento a un ideale di meditazione e studi solitari nel paesino di Avella in Irpinia (dove ci sono più noccioli che turisti) e a un’accurata selezione delle amicizie, in particolar modo di quelle culturali. In questo autoesilio, durato fino alla morte, lavorerà ad alcuni racconti (La nave nera), che saranno pubblicati dalla Compagnia dei Trovatori nel 2008, e a poco altro, avendo forse detto quanto gli premeva dire e non ritenendo, con una certa intelligenza, di dover aggiungere altro.

La vicenda, dicevamo, importa meno, e sconta forse anche un certo bozzettismo in personaggi che compaiono per poche pagine e poi scompaiono senza quasi lasciare traccia, quasi a porre il lettore dinanzi a una teoria di racconti, più che a un vero romanzo: racconti tenuti insieme come un collage o forse un puzzle da una cornice formata dal solo protagonista (Andreoli Carlo), che è poi visibilmente l’alter ego dello scrittore. Nei confronti di questi suoi personaggi, tuttavia, Pugliese fa in tempo a manifestare un’evangelica empatia, che prescinde dalle loro vicende e dai loro difetti, ma si applica appunto a tutto quanto in loro sia umano. A questa scelta di campo a favore della gente comune si contrappone l’ironica maiuscola con cui si designano sempre le “Autorità”, come pure il vezzo di far precedere il nome dal cognome, come nei verbali della polizia. E forse le si contrappone anche il titolo stesso, Malacqua, espressione che si tira fuori a Napoli quando si vuole indicare che le cose alla gente non vanno bene, e cioè quasi sempre. Ma la pioggia torrenziale, che cade ininterrottamente per quattro giorni, dal 23 al 26 ottobre di un anno qualsiasi, e causa allagamenti, frane, voragini, crolli e smottamenti nonché (purtroppo) vittime, è vista soprattutto come un presagio. Presagio che l’ansia dei cittadini può interpretare come funesto, ma che può anche virare per alcuni verso la rivelazione e il cambiamento liberatorio. E se l’evento straordinario fosse proprio tutta quest’acqua che riunisce il popolo, dal barista con moglie esotica alla contrabbandiera, dalla stenodattilografa insidiata dal principale all’adolescente innamorata, dal portiere al cronista solitario, e fa di Napoli nuovamente, pur con tutte le sue inadeguatezze e debolezze croniche una vera metropoli, un’autentica capitale?

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E veniamo a Fabrizio Ottaviani e alla sua Gallina. Che cos’ha in comune con Malacqua? Apparentemente poco o niente, salvo il fatto già ricordato che anche in questo caso si tratta di una riedizione, visto che il romanzo è uscito per i tipi di Marsilio nel 2011 e viene oggi riproposto in una nuova collana dell’editore Watson. Ma ad accomunarlo al libro di Pugliese c’è anche qualcosa in più, ed è l’estrema attenzione posta al linguaggio, la scommessa di una prosa ricca, ormai purtroppo inconsueta e inusuale, che si rivela il vero atout di questo libro.

Non che la storia in sé non sia godibile, nella sua apparente banalità: così come sono godibili, perché ben disegnati, i personaggi. Partiamo dunque dal plot, che ruota intorno al dono di una gallina viva e anche piuttosto vivace, lasciata da una vecchia misteriosa, apparentemente una barbona, nelle incerte mani del domestico di una coppia di mezz’età. Coppia che ovviamente è assai ben piazzata nella società, lui dirigente d’azienda, lei gran dama e presidentessa di associazioni benefiche. La presenza della gallina nella ricca abitazione borghese (di un quartiere imprecisato in una città imprecisata, ma impregnata di falso benessere) scatena tutta una serie di conseguenze: dapprima tra i domestici, poi tra i coniugi stessi, e infine tra i due livelli, tanto che, come in certe operine del Settecento, si sviluppano, in un turbinio di ripicche e vendette, alleanze incrociate e incrollabili (Max, il dirigente, con la cameriera, ed Elena, la padrona di casa, con il maggiordomo).

Fabrizio Ottaviani

La maestria di Ottaviani sta nel tenere insieme con vigore e una stretta d’acciaio una trama sempre più grottesca, che potrebbe sfilacciarsi e perdersi con grande facilità. Non è così; anzi, la progressione del disastro annunciato è inesorabile, in un crescendo di conflitti che in qualche punto sfiorano l’incredibile, ma sono poi tutti ben motivati dalla psicologia dei personaggi. Così come incredibili, ma ben riassorbite dalla trama, soprattutto verso la fine del libro, appaiono le annotazioni umoristico-satiriche (con toni di derivazione kafkiana) sugli ambienti, dall’aula di tribunale, dove si svolge un inverosimile processo per corruzione, al grattacielo della grande azienda, percorso da un pendolo che ne sancirà la tanto paventata (e tanto attesa) distruzione.

In origine e per studi universitari filosofo del linguaggio, qui Ottaviani gioca appunto con questi due termini e ne sfrutta tutte le possibilità, facendo del suo romanzo, scritto in un italiano impeccabile, un gioco filosofico che può ricordare il magistero volterriano, ma anche certe forme teatrali tra Ottocento e Novecento come la pochade e il teatro leggero di Feydeau, Bernard o Labiche, basati sul progressivo complicarsi dell’intrigo di partenza. Si richiama inoltre, a mio modesto avviso, a tutta una tradizione anglosassone di commedia degli equivoci, fra cui non solo i testi di Alan Bennett, per fare un esempio noto ormai a molti, ma anche e soprattutto quello che per me resta il miglior romanzo di Fay Weldon, Worst Fears (Le peggiori paure, pubblicato in Italia da Fazi), in cui ritroviamo la stessa rinfrescante impassibilità narrativa e il medesimo concatenarsi inesorabile di accadimenti, da un primo evento banale e apparentemente anodino all’avverarsi di una catastrofe completa.

Per concludere vorrei ricordare en passant un altro volumetto di Ottaviani, La testata di Zidane, edito tre anni fa da Mattioli 1885, in parte trattatello, in parte dialogo filosofico, che ho molto apprezzato e che non mi risulta abbia avuto una sufficiente visibilità. Prendendo lo spunto dalla famosa inquadratura televisiva nel corso della finale dei Mondiali di calcio del 2006 e soprattutto dai suoi strascichi, lo scrittore vi avvia un’analisi spietata e al contempo divertita della nostra società, dei suoi traumi e delle sue illusioni, prendendosela con lucidità anche con il nostro ambiente letterario ed editoriale. Dove può capitare che neanche un dialogo filosofico attualissimo trasformato in instant book trovi in piena estate, e con la chiusura delle redazioni, un editore; e dove sempre di più, come conclude amaramente Ottaviani, “il filisteismo è una pulsione più potente della rapacità.”

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