Danilo Maestosi
Alla Galleria Mucciaccia di Roma

Pizzi Cannella sul tappeto

Piero Pizzi Cannella mette in mostra una serie di opere realizzate dai tessitori di tappeti del Nepal: un esperimento che mescola materia e colori ma che rende omaggio allo stile personalissimo del pittore di San Lorenzo

Tappeti o arazzi? È la prima domanda che mi è venuta in mente, varcando le tre sale sotterranee della Galleria Mucciaccia in piazza Fontanella Borghese dove fino al 29 maggio è esposta l’ultima anomala sfida creativa di Piero Pizzi Cannella, 68 anni, pittore nato ai Castelli e trapiantato a San Lorenzo nell’ex pastificio Cerere insieme ad un gruppo di altri cinque artisti (Ceccobelli, Dessì, Gallo, Nunzio, Tirelli), stesso interesse per le discipline di tradizione, ma ognuno diretto per una sua strada, con i quali è decollato verso il successo. Già, perché quegli otto grandi pannelli di stoffa e di fili annodati, 3 metri per due, ricavati da sue invenzioni ma realizzati da altri, ti pongono subito il dubbio di come guardarli. In verticale, appesi alle pareti, accanto a una dozzina di disegni e studi preparatori, come il copione della mostra ha deciso di esibirli, anche per l’esiguità dello spazio. E proteggere la delicatezza della loro fattura. O stesi in terra come arredi da osservare dall’alto, calpestare, magari rotolarcisi sopra.

Certo, a sentire l’autore, lui li ha immaginati come tappeti, inseguendo una fantasia comune a tanti, perché – spiega – «tutti sognano di avere tappeti dove vivere, mangiare, dormire, volare, giocare con i figli, pregare o fare l’amore». E ammette: «Li ho amati e studiati. Ne volevo uno mio. Tentai, quando vivevo a New York, tanti anni fa di realizzarli in Messico e quando passavo le estati a Kekova, in Turchia. Troppo complicato e non mi somigliavano».

Il sogno si è concretizzato solo ora, quando due amici che gestivano una società romana specializzata in sofisticati arredi di design hanno cominciato a vantargli i miracoli dei tessitori di tappeti del Nepal, in botteghe aperte da secoli in quelle vallate circondate da montagne innevate che si arrampicano verso le cime record della catena dell’Himalaya, alla quale ha rubato il titolo dato all’operazione: Himalayan Collection.

No, non credo che Pizzi Cannella, che non è certo uno scalatore né uno molto portato ad affrontare fatica fisica e pericoli, sia mai arrivato lassù. Fino all’Everest. E neppure ai piedi di quell’immenso lastrone acuminato di ghiaccio, avvolto di nuvole, che muta colore di secondo in secondo. Avesse raggiunto almeno il campo base, oltre quota cinquemila, da pittore consumato di miraggi qual è, avrebbe sicuramente provato a misurarsi, pennello e matita alla mano, con quell’incanto. E ce ne avrebbe qui fornito testimonianza.

«Sono i viaggi mai fatti che portano da qui e ora verso lontano», riconosce, invece, lui stesso in coda al depliant che fa da catalogo. E quella frase mi risveglia il ricordo delle Città Invisibili di Calvino, di quel Marco Polo che cerca di spiegare il senso dei suoi resoconti al Gran Khan che lo accusa di descrivergli senza alcuna fedeltà le capitali dell’immenso impero, che lo aveva spedito a visitare e che al ritorno, nei suoi improbabili racconti, somigliavano tutte alla Venezia da cui il mercante era partito.

Già, perché ogni volta che ammiro e mi perdo in un quadro di Pizzi Cannella, provo anche io la stessa sensazione di lusinga e d’inganno. Che quei fantasmi di architetture che costellano come un marchio d’autore lo sfondo lui li abbia visti davvero, che quel suo viaggio tra Occidente ed Oriente, tra gotico e barocco, Islam e Cristianità, sia un’allucinazione a occhi aperti da romano doc, abitante di una città senza tempo, un richiamo d’ispirazione e d’identità che si trascina dentro, affacciandosi sempre dalla stessa balconata della cupola di San Pietro.

Non è un caso che quelle stesse ombre ibride di templi e monumenti, che sollevano echi e lingue esotiche da Torre di Babele, rispuntino anche qui, dritti in basso, rovesciati su in alto, in mezzo un Oceano vischioso di terre emerse e onde grigiastre in uno dei tappeti più riusciti e più belli.

Ma sì, dubbio risolto. Si tratta proprio di tappeti: un paesaggio fantastico inquadrato dalla distanza incommensurabile di un occhio che svetta dal tetto del mondo, e sfugge ad ogni confine di realtà verso un mare presunto, che proietta giù in terra, in orizzontale.

E invece no. Perché la pittura di Pizzi Cannella poi rifiuta la prigione della prospettiva, manipola sogno e realtà, non si rassegna ad un unico verso. Ti si para davanti, come una finestra, uno specchio che ti guarda dentro mentre lo guardi. E in qualche modo ti impone una fuga in verticale d’ingresso, che toglie la voglia di rotolarti dentro quelle stoffe istoriate, sguazzarci, sdraiarcisi sopra. A sedertici sopra, rischieresti di coprire qualche dettaglio. E come in tutti i lavori di Pizzi Cannella i dettagli sono essenziali, aprono dimensioni nascoste. Può essere quel volo di uccelli che migrano senza sosta sul planisfero dei cinque continenti. O quella rotta di orme nere che ripete lo stesso percorso avvolgente nel globo a suggerire le orme lasciate da chissà quale nostro antenato umano. O l’apparizione di un’isola misteriosa scoperta là alla congiunzione di due cerchi. O quelle tacche circolari di fasi lunari che incorniciano in alto e in basso un diafano panorama di terre, deserti e di mare, e sembrano solo macchie, ma quando ti avvicini scopri che ogni macchia è diversa, trasmette e racchiude vibrazioni di differenti racconti. O quella rosa dei venti che pulsa come un cuore vivo contro il solito fondale di celesti e di beige. O quell’inserto di ghirigori orientali che sembra far spuntare un tempio islamico o hindu direttamente dal mare.

Quando insomma ti rendi conto che ognuno di quei drappi fascinosi e sfocati non è che una mappa di un viaggio dell’anima, camuffato nell’apparenza di una di quelle immense carte appese al muro, si cui a scuola ti insegnavano la geografia. Un gioco di seduzione che perde smalto in un solo di quegli otto pannelli, quello confezionato da Pizzi Cannella in collaborazione con la sua compagna di vita Rossella Fumasoni: sei bandiere piazzate a frantumare la visione globale del pianeta e a indicare gli imperi che ancor oggi si dividono il controllo del mondo. Troppo vistose e rigide quelle tacche rettangolari. Troppo smaccata la citazione dei notissimi arazzi di geopolitica di Alighiero Boetti, con i quali questi lavori di Pizzi Cannella non hanno null’altro da spartire se non la confezione di tessitori ingaggiati in Afghanistan, in questa stessa porzione di Asia.

Lì una smagliante operazione dettata e dosata dalla ragione, tipica di un artista di forte impronta concettuale. Qui una magia dettata da un sogno creativo, che gli ultimi eredi nepalesi di una tradizione antichissima di lavoro manuale hanno poi ritradotto con impareggiabile maestria, guidati passo dopo passo da Roma verso il traguardo di veri e propri capolavori d’artigianato. Stupefacente l’uso dei colori, un centinaio di tinte inventate per l’occasione, a riproporre le tonalità polverose e calcinate dell’artista romano, i cui bozzetti e i cui quadri sembrano tutti affreschi staccati da chissà quale muro. Stupefacenti gli sbalzi di profondità e di spessore che attraversano la superficie, spezzano l’uniformità delle campiture, come ferite o intervalli di fuga.

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