Domenico Calcaterra
A proposito di “Giornalismo culturale”

Leggere Berardinelli

Una poderosa raccolta di articoli di Alfonso Berardinelli rivela gli strumenti del suo metodo critico: per lui, leggere "è" scrivere. E attraverso le sue interpretazioni (e le sue stroncature) si rivela un percorso accidentato e non accademico del Novecento

C’era un tempo in cui di alcuni critici si era soliti conservare gli articoli che andavano pubblicando sulle varie testate e riviste con le quali collaboravano, non solo per il tratto distintivo del loro argomentare, ma soprattutto per la lezione di mestiere, di stile, che se ne poteva con profitto ricavare. Oggi che le pagine culturali sono per lo più riserva di caccia di rivistai social, veri e propri promoter di sé e megafoni degli editori con cui pubblicano i loro libri, il giornalismo culturale è imploso, trasformandosi, nella maniera più organica possibile, in mercimonio. L’editoria-monstre arruola il pennivendolo-lettore-bulimico, disposto ad abdicare al giudizio di valore e ad abbracciare sine cura il nuovo evangelo commerciale (a scegliere di cosa parlare non è chi scrive, ma chi produce). Non c’è romanziere griffato che non diventi, appena il giorno dopo, recensore od opinionista letterario per qualche quotidiano, supplemento o settimanale. La mia boutade a riguardo è che per poter scrivere articoli sui giornali devi aver pubblicato almeno un cattivo romanzo di successo.

La critica letteraria che resiste sta altrove. Ed è ideologicamente incompatibile con questo sistema. Essendo un genere letterario in sé autonomo, la possiamo rintracciare più nei libri che nei luoghi un tempo deputati come la carta stampata. Mi è bastato riflettere su questo per decidermi a svernare in compagnia di Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve (Il Saggiatore, 2021), in cui vengono raccolti (a cura di Marianna Comitangelo e Giacomo Pontremoli), in rigoroso ordine cronologico, la quasi totalità degli articoli scritti tra il 2013 e il 2020 da Alfonso Berardinelli per «Il Foglio» e «Avvenire». Nonostante la mole del volume (quasi mille pagine), mi sarebbe sembrato un errore non compierne una lettura integrale, lenta, meditata. Non foss’altro per il fatto che il corpus degli articoli giornalistici del critico romano può essere compulsato come il “diario in pubblico” di un lettore: un giornalista culturale “di fatto” (come egli stesso ci tiene a sottolineare), che prende ciò che più gli è utile “per dare forza a intuizioni, opinioni e umori del momento”…

Leggere Berardinelli per me, nel tempo, è sempre più diventato come ritrovare, a distanza di anni, una vecchia fidanzata di cui si è rimasti sempre (nel ricordo) fedeli e segretamente innamorati (una sorta di platonismo, epperò declinato al passato). Da una parte l’ammirazione per la sua rapidità di sguardo e di disegno, nel tracciare traiettorie o scagliare i suoi strali polemici, da vero e proprio palombaro della cultura e dei tic della società italiana; dall’altro, non sempre apprezzando taluni suoi rapidi idiosincratici giudizi dal sapore di quasi lapalissiana inconfutabilità (su tutti, ciò che ha scritto, condannandolo per sempre entro una dimensione di aurea lontananza e cerebralità, su Italo Calvino). L’inverno con Berardinelli (in piena terza o quarta ondata) se non ha rivelato nulla di nuovo, tuttavia, la lettura in verticale e in rapida successione delle sue pagine di giornale, mi ha consentito di ricevere un eloquente colpo d’occhio su quelli che sono stati in questi anni gli idoli polemici e le idées fixes su cui ha pigiato l’accelerato, scommettendo per intero la sua peraltro longeva credibilità. A cominciare dalla difesa (sacrosanta) dell’autonomia – in quanto genere a sé – della prosa non narrativa, alla quale si stenta a riconosce “rilevanza culturale e inventiva”; insieme al partito preso circa l’inestinguibile vivacità delle forme di prosa non immediatamente narrative: il saggio, il diario, il taccuino (“il più privato, primitivo, basilare dei generi letterari”). Certo com’è che quel particolare “tipo di intelligenza” e di tessitura stilistica da cui in passato scaturivano i migliori romanzi, adesso sia rintracciabile nella saggistica di scrittori inclassificabili, dal piglio civile e morale (secondo la fulgidissima lezione di Garboli e Bellocchio). E che il critico, per Berardinelli, prima di tutto sia scrittore, non è nemmeno il caso qui di rammentarlo: anzi, il più altruista ed empatico degli scrittori (in ciò pensandola proprio come Giorgio Manganelli, convinto che la critica null’altro sia che “letteratura sulla letteratura”).  

Un esercizio inglorioso e solitario da parte di chi è percepito sempre più come “intruso”, giacché il critico “non crea”, semmai “opera a mani nude e impara dagli scrittori che cos’è la letteratura e come usarla”. La letteratura (e aggiungo io il perseverante insegnamento a scuola di essa) assume un valore oltre che testimoniale anche e soprattutto creativo: il leggere è fondamentale atto creativo al pari dello scrivere. Da una sì radicata persuasione discende il suo risentito disincanto, quando contrappone all’imperativo dello studio quello, assai più dilettantesco e libero, del pensare, concludendo che i più studiano perché diffidano dal troppo pensare (“Per uno studioso serio, farsi venire in mente durante la lettura qualcosa che riguardi la sua vita, è una cosa quasi indecente”).

Qui Berardinelli riprende la polemica di Hazlitt e il paradosso di chi studia per non pensare e non vedere. E più e più volte si ripete sulla critica che s’impara a fare leggendo gli scrittori e senza la cieca e pedissequa adesione a un metodo, buono per tutte le stagioni. O, per dirla meglio, in un pezzo in cui recensisce una raccolta di articoli e saggi militanti di Silvio Perrella: il metodo torna, con salutare scatto, “a coincidere con lo stile”. Il ritratto che fornisce di Perrella diventa l’identikit del cosiddetto critico “senza metodo”: il critico scrittore che tende a riprodurre, sotto altre forme, i procedimenti degli autori che ama e del tipo di letteratura di cui scrive.

Un’oltranza che non di rado tratta la letteratura come fatto personalissimo (si pensi a Franco Cordelli), aggiornamento di un diario di lettura in divenire: una letteratura che non può che essere trattata letterariamente… Accanto alla difesa dell’autonomia della prosa non narrativa e della critica come “specie di vizio soggettivistico e anarcoide”, il percussivo stigmatizzare i rituali conformistici di una società malata e senza scampo: dallo scetticismo arrabbiato contro il digital turn e i nefasti risvolti sociali e culturali connessi, alla strenua opposizione alla “culturalizzazione” del nulla.

Berardinelli indirizza, in definitiva, i suoi assalti (trattandoli come veri e propri sintomi) contro i protagonisti dello scenario culturale dell’ultimo decennio e contro le mitografie intellettuali del Novecento: da Heidegger ai francesi; dalla Neoavanguardia allo strutturalismo; senza mancare di prendere le distanze dall’Italian Tought della sedicente nuova scuola di filosofia italiana. In generale non apprezzando quei filosofi che hanno furbescamente rinunciato a una maggiore “umiltà di linguaggio”: malattia che sembrerebbe cogliere, secondo Berardinelli, tanto mostri sacri come Heidegger (“il brutto di Heidegger è che non si fa capire”), quanto i campioni nostrani di “megalomania filosofica” come Severino e Cacciari (“la più bella maschera filosofico-politica che il carnevale di Venezia abbia regalato alla commedia mediatica italiana”).

Del resto, la critica, quando si traduce in stroncatura, sovente dilaga nella satira. Il criterio della leggibilità rimane centrale nelle sue prese di posizione, specie quando rimprovera ai razionalisti italiani di non aver fatto abbastanza per mettere un freno e contrastare i troppi nipotini di Heidegger. Nel dar vita alle sue “innocenti” idiosincrasie, può capitare di imbattersi in giudizi rapidi e che non gli fanno onore, come quando liquida il genio nichilista di Giacometti con queste poche righe: “Ci vuole una specie di fede religiosa per accettare di guardare per più di dieci minuti opere tutte uguali in cui da guardare non c’era più niente” – di fatto equiparandolo alla congerie di presunti artisti del grande bluff di una buona fetta dell’arte contemporanea. Eppure, anche quando l’idiosincrasia sembra del tutto rubare la scena alla solidità dell’argomentazione, si rimane sempre affascinati dal modo estremamente sincero di condurre il discorso, al punto talvolta di farci dimenticare l’oggetto della sua critica.

Basti, per intenderci, un incipit ironico e fulminante, come questo: “Quando non ho niente da dire, mi prendo una piccola vacanza e parlo di Heidegger e dei suoi seguaci”. Le lune storte del critico, le notti insonni, gli umori mattinieri, sembrano essere il movente che ancora lo trascina a scrivere e a rimestare le sue ossessioni. Come se dalla lettura del profluvio di pezzi giornalistici possano aggallare i relitti di un’autobiografia esplosa: il divorzio precocissimo (e per molti insensato) dall’accademia (“insegnai sputando nel piatto, insegnai, senza alcun effetto, a non credere nell’istituzione di cui facevo parte”); l’incrollabile disamore per Roma e l’incapacità di approfondirne le ragioni (“Non smetto di rimuginare sugli innumerevoli perché del mio non-amore […] ma resto anche incapace di affrontare l’ingarbugliata vastità del tema”); il maturare, spiazzante, di un senso di lontanante estraneità (“Da anni mi sentivo solo. Sentirmi solo non mi inquieta molto, anzi. Mi succede però da tempo di non trovare qualcuno che capisca quello che intravedo a proposito di mondo digitale, internet, web, social network eccetera”). Idiosincrasia e autobiografia: ecco il vero tratto martellante proprio del critico senza metodo.  

Pensata dai curatori come “Introduzione al millennio breve”, nell’insieme, la raccolta degli scritti giornalistici ci restituisce tutto Berardinelli: quello battagliero che, segnando il disamore degli scrittori italiani per la nostra tradizione, si è preoccupato di non incoraggiare il romanzo e di avversare la cattiva poesia dilagante, paladino nella crociata a favore delle forme ibride o spurie di scrittura; e quello arroccato sull’attualità, sempre più desolato, e oggi recepito forse da molti come un cattivo maestro malmostoso (“quando si è di cattivo umore le riflessioni sulla società vengono meglio”) e stanco. Al lettore che metta insieme gli atomi spersi di questi suoi vagabbondaggi intellettuali apparirà evidente la fedeltà al modello della rivoluzione individualista operata dell’amato Montaigne dei Saggi (“sono io stesso la materia del mio libro”): una scrittura della lontananza, della presa di distanza; comunque per segnare, in maniera se possibile scoperta e decisa, lo scarto dal mondo contemporaneo. La critica assomiglia sempre più a una disarmata scialuppa di salvataggio per sopravvivere agli irati flutti della realtà. Sopravvivenza e scoperta mai del tutto conclusa.

Nella costellazione di critici-scrittori inclassificabili e provocatori, in primo piano, tra gli altri, figurano senz’altro i già citati Garboli e Bellocchio: il primo ha espresso nel “non-finito” l’imprendibilità dell’oggetto critico e la necessità d’invenirne il senso soltanto attraverso la scrittura; il secondo eccelso interprete d’un saggismo velatamente autobiografico e dal marcato accento morale. Tra i contemporanei, gli è su tutti caro Enzensberger, per quell’avversione quasi fobica verso le mode culturali imperanti: e in effetti, i diversi articoli che in questi dieci anni ha dedicato all’attitudine saggistico-argomentativa del tedesco si ricevono come un implicito autoritratto. Non è un caso che in epigrafe alla Premessa che accompagna il libro Berardinelli abbia apposto la medesima citazione di Lichtenberg – “Mai scrivere un libro, quando basta una pagina” – che figura anche nel pezzo introduttivo dei “Venti saggi da leggere in dieci minuti” di Panopticon (2019) di Enzensberger. E che entrambi riconduce, manco a dirlo, al grande precursore del saggio moderno Michel de Montaigne.

Ma ancora, a voler scorciare un più fedele ritratto del carattere del critico romano forse più di tutto ci dice – più dei decennali sospetti su tutte le avanguardie del secondo Novecento, Gruppo ’63 in testa (“L’avanguardia italiana si è creduta insuperabile. Nel suo distintivo c’era scritto: noi siamo sempre giovani, anche chi verrà dopo sarà vecchio”) più delle obiezioni al Fortini poeta (che tutto sacrificò in nome della fedeltà cieca e tormentata al marxismo) o la corsara e feroce stroncatura al più grande non-poeta italiano vivente Valerio Magrelli (“Preferisco essere truffato da un bottegaio che da un finto poeta”) –, l’amissione di diffidare dal più eminente misantropo della letteratura italiana del secondo Novecento, Monsieur Italo Calvino, proprio in virtù di quella profondissima “sintonia caratteriale”. Se Calvino ricorse alla fiaba (umoristica e fantastica), Berardinelli ha usato i suoi scritti giornalistici come filtri per scrollarsi di dosso le angosce di un mondo che sempre meno gli piace e da tenere a distanza. Eppure, quanto pathos trapela da quella calibrata lontananza!


La foto di Alfonso Berardinelli accanto al titolo è di Leonardo Cendamo.

Facebooktwitterlinkedin