Fabiana Cacciapuoti
Il Premio Ceppo Leone Piccioni 2022

La parola che varia

Nel segno di Leopardi, il riconoscimento intestato al critico letterario viene assegnato quest’anno a Fabiana Cacciapuoti, grande studiosa del recanatese. E apre le celebrazioni del bicentenario di “Alla Primavera”, al centro della relazione della vincitrice che qui anticipiamo

Da domani 6 maggio fino al 12, prendono il via a Pistoia gli appuntamenti della 66^ edizione del Premio Internazionale Ceppo diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi. E proprio il 6 maggio pomeriggio, alla Biblioteca San Giorgio, verrà consegnato il Premio Ceppo “Leone Piccioni Vita e Letteratura” a Fabiana Cacciapuoti, grande studiosa di Leopardi, che terrà per l’occasione una lectio sugli studi di Piccioni dedicati a Leopardi e su “Alla Primavera o delle favole antiche” di cui ricorre quest’anno il bicentenario (vedi https://paolofabrizioiacuzzi.it/ceppo-2022-fabiana-cacciapuoti-vince-il-premio-ceppo-letteratura-e-vita-leone-piccioni/). Il Premio Ceppo Biennale Racconto si articola in due appuntamenti il 7 (Premi Speciali) e l’8 maggio (proclamazione del vincitore tra i 3 finalisti). Info https://paolofabrizioiacuzzi.it/home/premio-ceppo/.

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L’importanza del Bicentenario di Alla Primavera, o delle favole antiche consiste nel significato nascosto di questa canzone, quasi una ouverture sulla situazione esistenziale che caratterizza la modernità. Composta nel gennaio 1822, Alla Primavera segna, infatti, un punto cruciale nel cammino del pensiero di Leopardi, poiché egli sa che le favole antiche, cui allude nel titolo, non esistono più. Quelle favole che finora lo hanno sostenuto, traducendosi nella forza del mito, nella vitalità dell’illusione, nella persuasione di una natura armoniosa e partecipe del destino dell’uomo. La consapevolezza della fine delle favole antiche comporta allora una doppia riflessione. Difatti, da un lato si fa strada la coscienza che il mito è finito, e con il mito forse anche la possibilità di fare poesia alla maniera antica, cioè una poesia incentrata sull’immaginazione (tema a lungo dibattuto nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818); dall’altro si acclara la morte di Dio. L’espressione «Vote/ Son le stanze d’Olimpo» ben rende il vuoto lasciato dall’assenza di ogni divinità, così che il dramma dell’uomo si consuma sulla linea della scissione: diviso tra la nostalgia di un mondo e di una natura che gli parlavano, quando di quella natura egli ancora faceva parte e quando era capace di leggere in ogni manifestazione naturale un segno; e la coscienza della solitudine estrema dell’essere perso in un universo senza corrispondenze, sulla soglia del nulla. Si delinea così il tragico, nella solitudine assoluta, nella domanda senza risposta, nel non senso che pervade ogni cosa. 

Non è un caso che nelle sue lezioni universitarie degli anni ’70 Leone Piccioni dedichi un attento lavoro a questa canzone, proprio per la modernità e la tragicità del messaggio che vi è racchiuso. E le lezioni sono solo un aspetto del suo lungo e continuo rapporto con l’opera leopardiana: dalla tesi di laurea sulla variantistica delle Canzoni nel 1946, sotto la guida di Giuseppe De Robertis e di Giuseppe Ungaretti, alla Lettura leopardiana del 1952, agli articoli degli anni ’70-’80, senza dimenticare, appunto, le lezioni universitarie del periodo compreso tra il 1970 e il 1979. L’insieme di questi lavori che nascono, come si può immaginare, da prospettive diverse, delinea però una costante: come tutti i grandi studiosi di letteratura, Piccioni arriva al cuore del pensiero leopardiano a partire dalla parola che il poeta sceglie, cioè da quella determinata parola che in sé racchiude significati molteplici, richiamandosi all’idea leopardiana di idee concomitanti, o che tra quei significati ne privilegia uno in particolare, perché in esso si trasmette il senso del pensiero dell’autore.

Il manoscritto
di “Alla Primaver”

Non si può dimenticare, quindi, l’attenzione che Piccioni dedica alla variantistica leopardiana. Per un pubblico di non addetti ai lavori, questa espressione, “variantistica”, può risultare di difficile comprensione, ma basta fare un esempio per comprenderne il valore. Prendiamo proprio la scrittura della canzone Alla Primavera, o delle favole antiche: se si osserva l’autografo napoletano dove è conservata la stesura della poesia, si vedrà che quest’ultima occupa una parte centrale della pagina, ma che è circondata lungo i margini da numerose e ricche varianti: una sorta di accerchiamento del testo, vergato su una colonna al centro della pagina, che richiama il commento dei manoscritti medievali e degli incunaboli. Ciò vuol dire che al commento, o, nel caso di Leopardi, alle varianti, viene affidato un ruolo significativo. L’analisi di Piccioni copre tutta la produzione poetica leopardiana, senza dimenticare una parallela e sincronica lettura zibaldonica in rapporto alla stesura dei testi poetici, ma la penetrazione critica è profonda e innovativa proprio nell’analisi della parola e nella restituzione di un senso preciso al lemma scelto.

Nella canzone Alla Primavera, o delle favole antiche, il primo elemento degno di attenzione riguarda l’uso di “antiche”. Il testo tratta del mito, e l’interpretazione più diffusa di “favole antiche” è proprio quella di mito. Certo, il termine “favole”, da “fabula”, di sapore vichiano, riporta anche a “favella”: quindi a racconto (“fabula”) come comunicazione attraverso il linguaggio (“favella”). L’antichità di queste favole è stata interpretata o, appunto, come legata al racconto antico, quindi al mito, o alla stagione dell’infanzia dell’autore, per cui quelle favole erano parte della sua prima età.

Ebbene, proprio sull’analisi di “antiche”, Piccioni costruisce la sua interpretazione del testo. Gli antichi, ci spiega, usavano “antiquus” nel senso di “meridiano”: favole antiche allora sta per “favole meridiane”, e Piccioni ci conduce in un viaggio attraverso le parole, per scoprire che nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, testo peraltro molto amato da Leopardi, grande spazio viene accordato al “meridie”, cioè l’ora del mezzogiorno. L’ora in cui gli antichi sapevano di poter incontrare anche gli stessi dei. Il mezzogiorno è un’ora panica, un’ora visionaria e illusoria. Così quelle favole antiche diventano favole di visioni illusorie. In tal modo si costruisce l’atmosfera della poesia, che si avvicina molto di più a situazioni moderne dominate dal vago, mentre la scelta delle figure del mito conduce al dramma: Dafne, Filli, le due sorelle figlie di Climene, Eco, Filomena, sono, infatti, tutte donne che si trasformano o muoiono per un amore infelice o violento. La fonte ovidiana delle Metamorfosi risalta qui nella sua asperità. E arriviamo al cuore del significato del testo: queste favole visionarie mostrano, attraverso le figure scelte, il dolore. Ed è un dolore che si svolge sotto lo sguardo indifferente della natura, che a questo punto si mostra tale già nell’epoca del mito, quindi nell’origine (non più considerata come età dell’oro) e non solo nel divenire della storia dell’uomo. 

Di fronte a questa indifferenza la domanda del poeta «vivi tu ancora?», rivolta alla natura, è determinante per Piccioni, in quanto Leopardi non si chiede se la natura esiste, ma se è viva per chi la sperimenta. Se non lo è, le stanze d’Olimpo, come ricordavamo, son vuote: senza dei e senza dio, il cielo è deserto, l’uomo è solo e incolpa se stesso della propria infelicità, perché non ha più nessuno contro cui scagliare il suo grido di dolore. Come per Eco, il suo grido non ha risposta. Così, a fronte del silenzio della natura, la richiesta da parte del poeta di ottenere ancora la sua antica ispirazione è fallimentare: questo potrebbe accadere se almeno una cosa, nel cielo, nella terra o nel mare fosse viva. Ma la natura indifferente nega qualunque forma di vita e di partecipazione ai destini umani, rifiuta la pietà. Per questo Leopardi le chiede di essere almeno spettatrice, se non pietosa, dei dolori umani. 

Nessun tono elegiaco, allora, in questo testo: e Piccioni, con Ungaretti, sottolinea come la scelta di parole lontane dall’uso – il pellegrino leopardiano – coincida col desiderio di usare un’ironia che raffreddi qualunque tono nostalgico. E c’è un altro punto da rilevare: non si può dimenticare come l’analisi di alcuni versi di Alla Primavera che contengono in variante il verbo “fingere” sia utile a definirne il significato di inganno, più che di immaginazione. Al verbo “fingere” Leopardi dedica molta attenzione, e Piccioni ne segue le sfaccettature nelle Annotazioni alle Canzoni, che gli consentono di interpretare il testo in maniera adeguata alle scelte d’autore. Proprio l’uso che Leopardi fa del verbo “fingere” in rapporto ai versi di Alla Primavera, ma anche delle Ricordanze, o di Alla sua donna, gli permettono di sposare l’interpretazione dell’Infinito di Ungaretti, nella negazione di qualunque forma consolatoria visibile nell’idillio, a fronte della tragicità del naufragio esistenziale. Difatti, la variante del verso 25 di Alla sua donna, «immaginando io fingo», consente l’interpretazione del noto «io nel pensier mi fingo» dell’Infinito, non come immaginazione, ma come finzione nel senso di inganno. E così cambia l’idea portante del testo. 

Questo è uno degli esempi che dimostrano come nei lavori di Piccioni, dalla Lettura leopardiana alle lezioni, l’attenzione alle varianti dei testi leopardiani non venga mai meno, ma ciò che gli interessa non è solo il lavoro strettamente filologico, per cui ci sono ragioni tecniche precise se l’autore sceglie una variante invece di un’altra, ma due elementi: uno consiste nell’idea di sistema, l’altro nella scelta significante del lemma. Piccioni, infatti, verifica, soprattutto nei diversi autografi, il rapporto tra varianti e lemma scelto: la stesura delle Canzoni o degli idilli, con le relative varianti in manoscritto, ma anche quelle riportate, nel caso delle Canzoni, nei manoscritti delle Annotazioni, senza dimenticare abbozzi o tracce in prosa della scrittura poetica. In tal modo, egli rende palese il cuore dell’officina autografa leopardiana. 

Fabiana Cacciapuoti

Difatti, uno degli elementi che più colpisce chi guardi anche solo per poco al mondo dell’autografia di Giacomo Leopardi è l’immensa mole di carte, a volte di piccolo formato, che contengono materiali legati alla parola: giochi lemmatici, liste sinonimiche, esercizi di memoria attraverso l’uso di lemmi diversi, richiamati a volte per tecniche di associazione mnemonica o fonica, serie di parole o di frasi riprese per lo più da autori classici o cinquecenteschi. Un materiale ricchissimo, molte volte riportato nello Zibaldone di pensieri, e, naturalmente, usato in diversa misura nelle Annotazioni alle dieci Canzoni: una cospicua serie di fogli densi di varianti relativi appunto alle canzoni. Su questo materiale Piccioni segue Leopardi, e il suo sistema, rifacendosi, anche se non in maniera assoluta, alle posizioni di Gianfranco Contini. Quest’ultimo aveva dialogato dalle pagine di “Letteratura” proprio con De Robertis, a proposito delle varianti di A Silvia, scrivendo per l’occasione Implicazioni leopardiane, saggio che in quegli anni accese i toni del dibattito intorno all’argomento. Per Contini, le varianti leopardiane vanno considerate nei nessi molteplici che si stabiliscono in un sistema composto da redazioni autografe e edizioni, quindi tra testi dello stesso autore, ma considerando anche l’intera cultura linguistica di quest’ultimo. Le correzioni sono “spostamenti in un sistema” e quindi non vanno valutate solo in funzione della scelta definitiva. Dal lavoro di Contini, Piccioni rileva l’idea di non ripetizione e di variante fonica, intese quali costanti tecniche del sistema delle varianti, pur mettendone in evidenza anche un certo meccanicismo; in tal senso la lezione di De Robertis lo riconduce all’esame della variante meglio intesa rispetto allo specifico luogo testuale in cui è posta, privilegiando il significato della scelta lemmatica.

E la verifica di quanto detto è visibile nelle lezioni universitarie, svolte da Piccioni, come abbiamo visto, negli anni ’70. La lettura di queste lezioni comporta due considerazioni immediate: da un lato l’abilità didattica, dall’altro, appunto, la connotazione diversa che un testo assume a seconda della parola usata dall’autore. Il tono semplice e come narrativo delle lezioni consente di entrare nell’opera leopardiana, mai facile, con naturalezza e semplicità: elementi ai quali Leopardi dal canto suo era molto attento. Il racconto della nascita e della stesura del testo leopardiano, in un dire scorrevole e piano, permette di toccare tutti i punti della composizione: dal fattore storico alla condizione soggettiva, senza eccedere in riferimenti letterari, ma navigando tra le diverse redazioni dei testi che a quel punto diventano significanti di un cammino interiore oltre che poetico. In tal senso, l’attenzione alla parola che l’autore sceglie tra decine e decine di possibili lemmi, o aggettivi, o anche espressioni, diventa essenziale all’interpretazione critica del testo. 

Quella parola, che per Leopardi determinava ogni cambiamento di pensiero: e le carte che conservano l’infinità dei lemmi leopardiani, in realtà, salvaguardano la complessità dell’idea. 

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