Paolo Petroni
Al Teatro La Comunità di Roma

Le passioni di Bazin

Giancarlo Sepe festeggia i cinquant'anni del suo mitico teatro, nel cuore di Trastevere, con uno spettacolo dedicato ad André Bazin protagonista del cinema francese degli anni Cinquanta. Una messinscena bella e visionaria, che - come sempre - mescola linguaggi e suggestioni

Alla prima di Bazin, il nuovo spettacolo di Giancarlo Sepe che apre le celebrazioni per i 50 anni del suo Teatro la Comunità, si è avvertita la presenza in spirito di personaggi che andavano da Eduardo De Filippo a Federico Fellini, Mario Monicelli, Alberto Moravia, Vittorio Gassman, Alberto Lionello, Maurice Bejart, Giulietta Masina, Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Paolo Stoppa, Aroldo Tieri, Lilla Brignone, Mariangela Melato, Patroni Griffi e tanti altri nomi di tutta la cultura italiana che sono stati soci della Comunità, che come associazione culturale doveva e deve tesserare gli spettatori. Sono gli stessi che, quando la polizia nel 1978 tentò di chiudere quel palcoscenico nel cuore di Trastevere con cavilli burocratici, intervennero pubblicamente in suo favore «per il suo valore e importanza di spazio anomalo e fondamentale, perché testimone della libertà dell’ispirazione teatrale non soggetta a vincoli di cassetta», come ricorda oggi con orgoglio lo stesso Sepe.

Bazin, spettacolo curatissimo, fatto di musica, canto, parole e corpi in movimento su un palcoscenico nudo, tranne sul fondo un riquadro bianco a richiamare uno schermo su cui non verrà proiettato però nulla (alla faccia di mode e facili effetti), insomma teatro purissimo e poetico, senza concessioni e studiato come sempre, è esemplare per questa ricorrenza e per certi caratteri della ricerca e del lavoro di Sepe, col suo grande amore per il cinema e la musica. Alla Comunità si replica sino al 12 giugno e, nato grazie alla collaborazione col Teatro Diana di Napoli e il Teatro della Toscana, sarà da questi ospitato all’inizio della prossima stagione.

André Bazin è stato il creatore dei Cahiers du cinema e ha sostenuto giovani critici rendendoli poi registi, creando la nouvelle vague francese e morendo a nel 1958 a 40 anni, mentre il suo allievo prediletto, Truffaut, stava iniziando a girare I 400 colpi cui aveva collaborato e che non avrebbe mai visto. «Destino triste di un uomo sfortunato, poco amato per la sua rigidità e il suo carattere spigoloso, che quindi mi ha affascinato», racconta Sepe, ricordandolo sospettoso del lavoro di montaggio e favorevole al piano sequenza. Cattolico e comunista aveva una particolare fede nel cinema documentario, di testimonianza divulgativa, ma da intellettuale poi si chiedeva sempre: «Siamo sicuri che quel che vediamo sia la realtà?». È la domanda centrale dello spettacolo su questo personaggio di cui viene messa in scena in modo visionario, aspro e poetico, la notte della sua morte, in cui si rivive, più che ripercorrere, il suo totale amore per il cinema. Un Bazin qui maltrattato in punto di morte, così da avere un ultimo sobbalzo di vitalità, dalla moglie, sposata confessandosi reciprocamente, l’amore per il cinema, il suo linguaggio e le sue storie, in nome di Ingrid Bergman o di Arletty quasi annullando i confini tra vita e personaggi.

Quest’uomo, integralista e col suo fare ruvido, in bilico tra etica e tecnica, spiega le sue teorie cinematografiche, tra montaggio e piani sequenza; se la prende con i vecchi registi che impediscono al cinema francese di crescere; ha una tenera telefonata con Truffaut che è alla viglia delle riprese di quel film su cui hanno lavorato assieme; parla della morte, che nel cinema è un monito e nella vita la vittoria del tempo; ricorda facendo entrare e uscire dallo schermo attori e personaggi, sempre sull’onda di musiche malinconiche e volteggi o insistendo su alcuni movimenti. 

Le canzoni francesi, a cominciare da quella d’apertura di Trenet, e i balli qui, più che in altri lavori di Sepe, acquistano un senso esistenziale sul filo del ricordo, del tempo che passa con leggerezza e sentimento. Un gioco di ritmo e geometrico che richiede complicità e coordinamento tra tutti gli attori (e molti sono oramai storici di Sepe), soprattutto nel riuscire a fondersi in una visione generale col suo rigore e poesia pur nel loro essere più figure che personaggi, come le ombre sullo schermo. Un lavoro che richiama un po’ quella fede nell’essenzialità, quasi il vuoto dello spazio scenico, nella ripetizione e nel lavoro dell’attore di Peter Brook. Non a caso diventano più personaggi quando rievocano scene di un film, reinterpretando tra l’altro il pilota André, la sua amante Christine e gli altri protagonisti de La regola del gioco di Renoir con le sue storie contemporane e che si intrecciano e una tecnica, una scrittura filmica che era quella teorizzata e amata da Bazin.

Gli interpreti, coinvolti in un artaudiano teatro della crudeltà, ovvero del sogno, della visione assolutamente necessaria e determinata, controllata in ogni particolare per sfuggire al disordine del sogno spontaneo, sono tutti quindi doverosamente e meritatamente da citare: da Margherita Di Rauso che è la moglie di Bazin, a Giuseppe Arezzi il nazista, Marco Celli il pilota, Davide Gallarello Balala, Claudia Gambino Christine, Francesca Paolucchi Lisette, Federica Stefanelli Séverine, Guido Targelli Robert, con i curati costumi di Lucia Mariani. Con loro, a dar forza a Bazin, tra nostalgie e passioni, nella solitudine dei suoi sogni, è Pino Tufillaro, da lodare per il grande impegno anche fisico, tra canto, ballo e recitazione, e quel trovare la misura giusta per un personaggio per sua natura tendente a essere sopra le righe.

Se Tufillaro è proprio parte della storia della Comunità, anche molti degli altri attori hanno preso attivamente parte a molti anni della sua vita che, appunto compie quest’anno il mezzo secolo e si troverà poi il modo per ricordare e festeggiare nello specifico questa unica cantina della neoavanguardia romana degli anni ’70 ancora in attività, anzi divenuta un punto di riferimento nel panorama del teatro romano, anche prima di quest’anno tragico e con tante sale chiuse.

L’interno del Teatro La Comunità

«Quando nel 1972 entrai negli spazi del sottoscala in via Gigi Zanazzo, che era un deposito della carta della Zecca di Stato – ricorda Sepe – avevo 26 anni, alcuni spettacoli alle spalle di autori che andavano da Kafka a Lorca, da Sartre a Beckett, più due anni prima quei Misteri dell’amore di Vitrac che avevano attratto l’attenzione della critica più importante». Per inaugurare il nuovo spazio scelse Ubu Roi di Jarry, che fu un successo. Seguirono altri spettacoli, a cominciare dal meraviglioso e musicale Scarrafonata che girò poi tutta Italia, e quindi l’acclamato In albis, che venne invitato al Festival di Spoleto dove debuttò anche Accademia Ackermann, titoli oramai storici che dettero a Sepe (e al suo teatro) solida notorietà. Su questa base, in collaborazione col suo grande scenografo di quegli anni, Uberto Bertacca, nel ’78 venne ristrutturato definitivamente lo spazio con una scelta che privilegiava le necessità dello spettacolo con un palcoscenico profondo 20 metri e una scalinata per il pubblico di meno di 10. «Ora di anni ne ho ovviamente 76 e il teatro La Comunità ancora esiste, perché l’ho sognato, pensato e allestito io, con grandi sacrifici. Di un locale sotterraneo disadorno, senza luce e umido, ho fatto un vero e proprio teatro, con un palcoscenico, dei camerini, una platea, un piccolo ufficio».

Una vita segnata dal teatro, amore sin da piccolo se il suo primo abbonamento a una sala teatrale lo ebbe in dono a 12 anni. Quasi un terzo dei 106 spettacoli firmati in una vita da Sepe sono nati alla Comunità, mentre diventava il regista di Lilla Brignone e di Umberto Orsini, che gli aprirono le porte dei grandi teatri italiani. Tra l’altro ha creato memorabili lavori per Mariangela Melato, con cui collaborò per sei anni, cinque anni con Monica Guerritore e 20 anni con Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, ma ha anche firmato un indimenticabile Conversazioni con la madre per Peppe e Concetta Barra. E se nelle sue creazioni per i grandi teatri c’era sempre una nota che ne caratterizzava la voglia di andare oltre, di mettere alla prova testi e interpreti (e tra tanti, per me, esemplare resta un Marionette che passione di Rosso di San Secondo con Tieri), nel frattempo portava avanti un lavoro più sperimentale, poetico e visionario, teatrale ma come sempre con un occhio particolare al cinema e un orecchio alla musica, fondamentale per l’atmosfera e il ritmo, in quel locale dove – dice con passione – «prima erano solo topi e oggi vi sono cresciuti tanti giovani con la voglia di far teatro», partecipando a creazioni di Sepe che, solo per fare alcuni nomi, vanno da Macbeth a Atto senza parole, da Favole di Oscar Wilde, replicato alla Comunità per quattro anni, ai Dubiners, da Werther a Broadway a Amletò. Una storia che non è finita, come Bazin testimonia, una passione che sta già elaborando altrui progetti.


Le foto dello spettacolo sono di Manuela Giusto

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