Alessandro Macchi
Il senso di una crisi

Il vento di Kiev

Memorie di guerra (e di libertà negata a Kiev come altrove), mentre ancora una volta l'Europa conosce rabbia e violenza. Sembra quasi che la storia non riesca mai a essere buona maestra

C’è vento, un vento ora tiepido ora decisamente fresco. A Licosa, borgo del Comune di Castellabate, salgo a piedi fino al palazzotto antico del “Casino del Barone”, già luogo di caccia e del ben vivere ma da tempo abbandonato. È il mese di marzo 2022 quella della invasione russa dell’Ucraina. Sono salito quassù inquieto e turbato, cerco di astrarmi dalle immagini che ho visto in TV e mi concentro sulla natura, lei ha l’anima pulita.

La strada-sentiero è larga ed è fiancheggiata lato mare da radi pini a ombrella, mentre lato monte, sorgono alcuni grandi olivi antichi, poi la costa sale tutta ricoperta dalla macchia mediterranea integra punteggiata da rigogliosi pini di Aleppo. La strada corre a una settantina di metri di quota ed è un balcone belvedere che riempie i polmoni di sensazioni emotive, normalmente serene. Se il luogo solitario permette esperienze inedite suggerite dagli occhi, oggi lasciano il posto all’ascolto di immagini ben diverse, quelle tragiche della realtà attuale, la guerra di Putin in Ucraina.

La mente è altrove, ho visto in TV l’immagine di una ragazza ucraina ferita portata a braccia tra le macerie e, inquietanti, mi son tornati alla mente i racconti di Valerio.

Valerio era un mio assistente per le opere d’arte minori a Genova quando io, giovanissimo, nel 1960, dirigevo due cantieri dell’Autostrada Genova Serravalle Milano. E Valerio mi aveva raccontato le sue vicende nella guerra dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’esercito era stato lasciato allo sbando con la vile fuga del Re e di Badoglio e con i tedeschi che avevano occupato buona parte dell’Italia. Lui, come tanti, si era trovato a fare una scelta drammatica o aderire alla Repubblica di Salò, Repubblica Sociale Italiana, o la deportazione in Germania. Valerio non si arruolò e così fu deportato in Germania non lontano da Berlino. Viveva in un campo di internati militari italiani che spesso si tramutava in un lager sullo stile di Auschwitz e qui lui era addetto a sgomberare le macerie da Berlino dove i bombardamenti si susseguivano con migliaia di tonnellate di bombe.

Valerio così mi aveva raccontato: «Subito dopo uno di questi bombardamenti con la mia squadretta di uomini ero stato comandato a Berlino per sgomberare macerie e cadaveri e riaprire una strada per usi militari. In una casa ancora calda di fuoco cercammo vivi e morti. Vedemmo in una stanza una donna giovanissima che sembrava dormisse con la gonna tirata su a coprire la bocca, …  era morta, era ancora calda forse per il calore vaporoso della stanza. Io la presi per le gambe, gli altri per le spalle». Qui il racconto di Valerio proseguiva con voce incerta: «le gambe mi rimasero in mano disarticolate dalle anche … come … come le ossa di un pollo bollito … e, cadendo, si stavano come slacciando al ginocchio e così le spalle tra tendini e muscoli e bave … e il corpo e la testa caddero a terra miseramente…  Eravamo lì con la carriola tra le mani»…

Sono arrivato al Casino, lo precede uno spazio recintato da muri alti forse due metri e mezzo; il portale di ingresso ha una garbata sagoma curvilinea con in cima i resti di bei vasi smaltati blu cobalto: è un Hortus Clausus di monastica ispirazione che qui sorge come vestibolo del Casino. l vecchi Baroni vi coltivavano piante e alberi per scopi alimentari e medicinali e, forse, per pura bellezza profumata. Colpiscono i resti dell’Hortus rintracciabili a fatica dopo un quasi secolare abbandono, il ricordo lo dà il profumo di menta, pervinche timide spuntano tra la ramaglia spinosa, qualche residuo di piante di rosa? un albero di aranci amari un po’spoglio porta ancora qualche frutto, buono per la marmellata. Poco fuori un mandorlo è fiorito, vorrei prenderne un ramo col profumatissimo fiore bianco con sfumature rosa come i pistilli ma mi prende pena per la pianta, raro resto dell’antico impianto, e ne stacco solo un ramoscello.

Ma la mente è altrove e sta proponendomi la lettura mentale di uno degli ultimi articoli che ho trovato su Internet, pubblicato da Dmitrij Muratov, giornalista russo, sulla Novaja Gazeta di cui è direttore (Muratov è stato insignito del Nobel per la pace nel 2021). Il giornale, ora chiuso dal regime, è stato ed è oggetto di numerose minacce e persecuzioni. Ben sei dei suoi giornalisti sono stati uccisi, tra cui Anna Politkovskaja, assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006.

Dice Muratov: «La guerra è un crimine. L’Ucraina non è il nemico. La Russia pagherà un prezzo enorme per la scelta fatta da Putin. Mentre le bombe cadevano sull’Ucraina nelle prime ore del 24 febbraio, nella metropolitana di Mosca la gente andava al lavoro particolarmente cupa in volto. Non esultava per la guerra improvvisa. La guerra con l’Ucraina è impensabile. Il Paese uscirà con perdite enormi dalla realtà surreale che ci ha offerto Putin. L’odio reciproco avvelenerà le relazioni della Russia con tutti i suoi vicini, dividerà le famiglie, distruggerà le amicizie e la porterà sull’orlo della guerra civile. Il sangue dei civili inermi finirà sulle mani dell’aggressore. I cittadini di un Paese sono sempre responsabili delle azioni del loro governo, perché questo Paese è della nostra gente, non il loro, dei funzionari. Ma come è stato possibile fare la guerra? Non ne abbiamo ancora una chiara comprensione. Condivido un’ipotesi: gli occupanti del Cremlino si sono nutriti della loro stessa propaganda per troppo tempo. Del culto della violenza, sbattendo tamburi di latta e lanciando slogan ripetitivi, ostentando una diplomazia immatura. A differenza delle precedenti campagne ibride, nessuno ha nascosto i preparativi per la guerra. Gli scettici consideravano tali rapporti allarmistici. …. Nessuno ha fatto un sondaggio per sapere se i russi vogliono la guerra. E mi rifiuto di credere che i russi possano accogliere in massa i bombardamenti su Kiev …. Mentre veniva presa la “decisione fatidica” i cittadini (contrari) non erano rappresentati da un solo deputato della Duma o da un solo funzionario. Nessuno di loro ha osato opporsi al presidente Putin o ha chiesto se vogliamo vivere in un Paese in guerra. Di fatto, non siamo considerati cittadini nel nostro stesso Paese, né siamo persone che hanno diritto alla normale dignità umana….Se la propaganda ha creato una guerra, i fatti potranno opporsi ad essa. Noi giornalisti non siamo soldati, siamo disarmati, ma lavoreremo sul campo affinché la società ricordi che la guerra è terribile. Non nasconderemo nulla. Probabilmente ci toccherà fare il nostro lavoro sotto censura militare. Nessuno proteggerà l’Ucraina, solo gli ucraini potranno farlo. Nessuno potrà fermare la nostra catastrofe nazionale, tranne i russi che hanno detto “No alla guerra”. La redazione della Novaja Gazeta è contro la guerra. Noi abbiamo fatto questa scelta. Fatela anche voi, per quanto difficile possa essere».

Vago nelle rovine dell’Hortus clausus, i resti di piante e profumi antichi non mi distolgono dalle visioni e rivedo inesorabilmente il racconto di Valerio che mi aveva ripetuto alcune volte, finiva con parole lente e basse in uno strano gorgoglio, come di corrente incancellabile…

Quale sarà il destino dell’Ucraina? Sarà tenuta militarmente sotto la morsa dei russi?

Le piante dell’Hortus agonizzanti e i ruderi di pietra del Casino mi portano improvvisamente alla mente la canzone “Chissà, chissà domani” di Lucio Dalla. È il 1980 quando Lucio racconta, canta, con una stupenda interpretazione metaforica e letterale, la storia della società di quegli anni, della frattura tra Ovest ed Est, di un amore, di una bambina che potrà nascere, di progetti per il futuro. Una storia di paura ma anche di speranza. «Su che cosa metteremo le mani, se si potrà contare ancora le onde del mare, i russi, i russi, gli americani. Sarà stato forse un tuono, non mi meraviglio, è una notte di fuoco …». Forse è quell’eterno ritorno dei tempi drammatici di cui parla Nietzsche?

Mi avvolgo nel vento, nel cielo le nuvole si rompono e ricompongono con grazia scivolando come animate dalla mano di un maestro pittore e le loro proiezioni sull’acqua colorano le correnti sul mare e paiono stormire come i pensieri.

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