Raoul Precht
Periscopio (globale)

Fortezza Buzzati

Ritratto di Dino Buzzati, a cinquant'anni dalla morte: uno scrittore la cui invenzione (la vita che scorre nell'attesa della vita, nella Fortezza Bastiani) è diventata un riferimento assoluto per tutta la letteratura venuta dopo di lui. Eppure, è sempre stato considerato "marginale"

Ci sono delle storie, avvincenti e paradigmatiche, che ne percorrono e precorrono altre, come una specie di sottotesto allusivo o, se preferite, come un fiume carsico che di tanto in tanto ricompare e si attesta con insistenza nella nostra mente. Storie che generano altre storie. Una di queste è senz’ombra di dubbio quella dell’ufficiale Giovanni Drogo e della sua lunga, sterile attesa nella fortezza Bastiani, l’ambientazione che fa da sfondo alla vicenda narrata nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Anche se dovessimo limitarci a questa rubrica, scopriremmo che di tanto in tanto capita quasi automaticamente di evocare Buzzati e il suo Deserto come pietra di paragone o più sovente come elemento di contrasto, magari mentre si sta trattando di autori completamente diversi da lui ma che in qualche modo, consapevolmente o no, al suo capolavoro si sono riferiti (o con esso hanno dovuto confrontarsi) al momento di comporre un loro romanzo.

Ecco quindi che ci è capitato per esempio di menzionarlo con riferimento al miglior romanzo di Julien Gracq, Le rivage des Syrtes (La riva delle Sirti), ripubblicato recentemente da L’Orma, ma anche al momento di analizzare il capolavoro di José Pablo Feinmann, El ejército de ceniza (L’esercito di cenere), edito in Italia da Sur. Più che altro per contrasto, appunto, o in termini disgiuntivi: nel primo caso perché, per impasto linguistico e intenzioni, Gracq si sottrae volutamente all’influenza di Buzzati, ammettendo tutt’al più – e anche queste a denti stretti – alcune analogie con la puškiniana Figlia del capitano, e nel secondo, invece, perché troppo forte è in Feinmann l’allusione alle varie dittature in Argentina, elemento che ancora una volta non ha nulla a che fare con la dimensione più propriamente filosofica e astorica del testo di Buzzati.

Il cinquantenario della morte, avvenuta il 28 gennaio del 1972 (giorno che a Milano viene ricordato per una bufera di straordinaria intensità), ci dà ora l’occasione di ricordare Buzzati e il suo Deserto dei Tartari per quel che sono stati, ovvero rispettivamente un autore di grande perizia artigianale, senz’altro da riscoprire, e la sua opera più rappresentativa e del tutto peculiare e inimitabile. Non è certo il caso di fare graduatorie, anche se personalmente ritengo il Buzzati di certi racconti superiore al Buzzati che affronta la dimensione ampia del romanzo, ma resta il fatto che il Deserto dei Tartari è l’opera di maggior successo, quella che funge da unità di misura per l’intera sua produzione, ragion per cui è da qui che, in qualunque discorso riguardante Buzzati, occorrerà partire. Come spesso accade quando un libro acquisisce una vita autonoma e staccata da quella del suo autore, diventando persino più popolare se non addirittura, come in questo caso, proverbiale, c’è un prima e c’è un dopo. Il libro stesso fa insomma da spartiacque, inducendo spesso a ignorare quella sostanziale continuità che in Buzzati andrà invece tenacemente ravvisata.

Buzzati consegna il manoscritto al fraterno amico Arturo Brambilla nel gennaio del 1939, affinché questi lo giri a sua volta all’editore Rizzoli. Il libro viene poi pubblicato nel 1940 in una collana diretta da Leo Longanesi, ottiene subito un grande successo di pubblico e sarà poi tradotto in (quasi) tutte le lingue, essendo letto fin dall’inizio in chiave esistenziale e fortemente allusiva. Se è vero che il titolo originale era La fortezza e che fu cambiato dall’editore per evitare qualunque riferimento alla guerra in cui l’Italia si stava avventurando, è anche assodato che il testo non avrebbe comunque consentito di ravvisarvi alcuna allusione a fatti di attualità, men che mai bellica. Non è sfuggito insomma come il concetto di “fuga del tempo”, cioè l’invecchiamento che avviene mentre si vive o si vegeta nell’attesa di un evento che modifichi tutto, fosse da Buzzati mutuato (e opportunamente trasfigurato) dall’osservazione quotidiana del proprio tran-tran come redattore, fin dal 1928, del Corriere della Sera. Buzzati tramuta il suo giornale nell’avamposto militare della fortezza Bastiani, così come i colleghi giornalisti, separati dalla realtà quotidiana dalle loro isole-scrivanie, si trasformano ipso facto in soldati di un oscuro e imbelle esercito e le lunghe notti di veglia passate al giornale in cerca di notizie nella sempre più defatigante attesa del nemico. Del resto, la capacità (e direi la facilità) di creare metafore non banali accompagna tutta l’opera di Buzzati, e quella principale del Deserto – mi riferisco soprattutto a quando Drogo, malato, è rinviato in città e i tartari arrivano davvero, ma lui si rende conto del fatto che la vera battaglia è quella che dobbiamo combattere contro la morte – è solo la più toccante e sorprendente di tutte.

C’è un prima e c’è un dopo, dicevo. Nel 1933 era uscito il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne, di cui è vero protagonista il paesaggio dolomitico – la montagna in generale è fra i soggetti costanti nell’opera di Buzzati, che era anche un valente alpinista, ed è anche il perno della poetica di un sostanziale ritorno alle radici. È seguito nel 1935 da Il segreto del bosco vecchio, in cui si evidenziava ancora una volta il rimpianto per l’armonia perduta fra uomo e natura, sostituita ormai da un rapporto di mero sfruttamento affaristico che solo la comunicazione di un bambino con le creature del bosco potrà contrastare.

Nel 1945 sarà la volta de La famosa invasione degli orsi in Sicilia, con disegni dell’autore. In teoria libro per bambini, è anche un apologo per gli adulti, tanto da riprendere alcune delle tematiche già affrontate nei libri precedenti, superando però la dicotomia un po’ troppo ingenua fra bene e male e ponendo, con maggiore disincanto, uomini e animali sullo stesso piano, con i medesimi difetti e le medesime pulsioni distruttive. Questi orsi che vengono attaccati e stanno per essere sterminati ma che poi, vinta a sorpresa la guerra contro le truppe del Granduca, diventano proprio come gli uomini, cioè altrettanto rammolliti e corrotti – ebbene, cosa ci ricorda questa storia, quali spettri ci agita davanti?

Bisognerà aspettare il 1942 per il suo primo libro di racconti, I sette messaggeri, seguito nel 1949 dalle storie raccolte in Paura alla Scala e l’anno dopo dal volume di appunti, frammenti e brevi prose In quel preciso momento. Di una serie di nuovi racconti è composto Il crollo della Baliverna, del 1954, cui faranno seguito nel 1958 Esperimento di magia e Sessanta racconti, nel 1966 Il colombre e infine nel 1971 le storie più cupe e crepuscolari, segnate dal tema della morte, de Le notti difficili. (Anche se poi la morte in Buzzati è sempre presente, anche nelle raccolte precedenti: si pensi solo ai racconti Il mantello ne I sette messaggeri, Il borghese stregato in Paura alla Scala o ancora Qualcosa era successo ne Il crollo della Baliverna, per non parlare de Il colombre, in cui Stefano, che ha tentato per tutta la vita di scampare alla morte, decide di andarle incontro, avendone avuto rovinata e dannata la vita.) Tutti i racconti di Buzzati si snodano intorno a elementi concreti e ben tracciabili della vita quotidiana, ma virano poi sovente verso il fantastico e l’inaudito, o, per converso, verso l’impegno sociale e ambientale, facendo dunque di Buzzati un precursore di certe inquietudini e di certi timori che oggi sarebbero di grande attualità.

In campo narrativo va ricordato ancora il romanzo sperimentale Un amore, del 1963, in cui l’autoanalisi si sposa a tecniche ancora sufficientemente avanguardistiche, come un flusso di coscienza di stampo joyciano, e che ebbe però successo assai scarso e non fu compreso affatto dalla critica.

Sebbene Andrea Zanzotto facesse una distinzione fra la lingua, funzionale e concreta, del Buzzati giornalista e quella più ricercata del narratore, la sua prosa, sempre elegante e nitida, è perfettamente comprensibile ai più, non richiede particolari doti di decrittazione, pare anzi mimetizzarsi e acquattarsi dietro un’ansia comunicativa che con il passare degli anni si fa sempre più predominante. Anche nei racconti in cui la trasfigurazione labirintica e fantastica del reale è più intensa, Buzzati riesce a rendere perfettamente intellegibili, davvero tracciabili, le proprie intenzioni e invenzioni narrative, arricchendole di tocchi pittorici e cromatici (non a caso la pittura era la sua vera passione e, magari con un pizzico di civetteria, lui si sentiva anzitutto un pittore, prestato solo secondariamente alla letteratura).

A proposito d’invenzioni: fra le tante doti che gli vengono riconosciute, vi è quella di essere l’autore della prima graphic novel della storia, il Poema a fumetti, che è del 1969. E, se non bastasse, si aggiunge anche quella di aver in qualche modo previsto e prefigurato i nostri infernali telefonini cellulari. In un racconto scritto nel 1966 e intitolato Cronache del 2000, poi ripreso nella raccolta Lo strano Natale di Mr Scrooge e altre storie (1990), il protagonista, proiettato in un futuro prossimo, vede infatti la gente andarsene in giro con dei dispositivi, i “teletini”, che consulta freneticamente e che non sono altro che “telefoni-televisori tascabili con i quali è possibile parlare e vedersi entro un raggio di trenta chilometri”. Una curiosità, certo, ma che la dice lunga sul fiuto da cronista e scopritore che accompagna Buzzati per tutta la vita e gli consente, fra le altre cose, di inventare, per i suoi racconti, trame mai banali, intrecci che stanno in piedi, storie che non si limitino, come deplorava lui stesso a proposito di altri colleghi, a rielaborare ricordi d’infanzia fino allo sfinimento e all’esasperazione (del lettore).

Ci sarebbero stati insomma tutti gli elementi, in teoria, per fare di Buzzati uno scrittore pienamente inserito nel canone novecentesco, e invece gli è toccato in sorte un severo ostracismo: per essere stato troppo borghese e conservatore in anni in cui questi termini erano poco meno che un insulto; per aver ribadito a più riprese l’intenzione di restare apolitico proprio quando da uno scrittore si esigeva una presa di posizione ideologica netta e granitica; per non essere stato abbastanza sperimentale in anni in cui non si parlava d’altro che di strutture romanzesche, possibilmente prive d’azione e di personaggi; per aver voluto insistere nell’equiparare scrittura giornalistica e letteraria, sostenendo che la scrittura è semplicemente bella o brutta, deve solo evitare la noia, come sosteneva anche Voltaire, e mirare alla commozione; e infine per essersi lasciato andare a forme ibride e vieppiù “sporcato” con una letteratura di segno fantastico, considerata quindi di genere e inferiore a quella più elevata, omaggiata a mo’ di feticcio da tanti imparruccati soloni della nostra letteratura del secondo dopoguerra. Tutti elementi, però, che oggi dovrebbero spingerci a una riconsiderazione e a una rilettura più attente della sua parabola e della sua produzione, primi fra tutti alcuni fenomenali racconti, e che ce lo rendono più contemporaneo.

Contemporaneo come avrebbe voluto essere lui stesso, se è vero che nell’epigrafe o iscrizione cimiteriale che aveva ironicamente previsto per sé aveva dettato: “Dino Buzzati, scrittore sommo, nato il 16 ottobre 1906, morto per caduta da cavallo il 30 febbraio 2017.” 30 febbraio, perché con un po’ d’impegno anche di questo sarebbe stato capace.

Facebooktwitterlinkedin