Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il bello di Kawabata

Guida alla lettura di Yasunari Kawabata, morto cinquant'anni fa e rimasto nell'immaginario occidentale come il cantore della bellezza. Uno scrittore tutto da riscoprire, che ancora oggi rappresenta il punto di congiunzione tra il Giappone e il mondo

Che cos’è la bellezza e con quali cautele la si deve trattare? Quali sono i mezzi grazie ai quali uno scrittore può cercare di descriverla? E ancora una terza domanda, quasi un corollario alle prime due: come mai, nella triade classica dei grandi scrittori giapponesi del Novecento – Tanizaki, Mishima, Kawabata – proprio quest’ultimo, che pure della bellezza e della sua rappresentazione ha fatto il suo punto di forza, quasi il suo assillo, ci sembra oggi in definitiva il più debole? E la risposta che mi viene spontanea ha più a che fare con la sua immagine pubblica che con dei testi peraltro pregevolissimi, che andrebbero anzitutto riletti con attenzione. Un’immagine, quella di Yasunari Kawabata, che si propone forte, ieratica, austera, ingessata, definitiva; un’immagine che lo scrittore stesso ha contribuito a definire nel corso degli anni, e soprattutto, per noi occidentali, a partire dal discorso di accettazione del premio Nobel dal titolo Japan, the Beautiful, and Myself – fino poi alla morte tragica (un suicidio mai del tutto chiarito e confermato) avvenuta esattamente cinquant’anni fa, il 16 aprile del 1972, due anni dopo il famoso seppuku dell’amico e discepolo Mishima.

Ma Kawabata – diciamolo subito per sgombrare il campo da ogni equivoco critico – non è stato fin da subito un cantore della bellezza immobile e atarassica che associamo a certa letteratura giapponese classica, almeno per come si è andata cristallizzando nelle nostre menti di occidentali (e forse eterni turisti). Soprattutto in gioventù – parlo degli anni Venti e Trenta – è stato anzi un accanito sperimentatore, sensibilissimo alle avanguardie europee, promotore di movimenti culturali che saremmo tentati di apparentare al surrealismo o al dadaismo. In particolare, mentre collabora (ai limiti del ghostwriting, pratica all’epoca peraltro niente affatto rara) alla stesura di alcuni dei testi di fattura piuttosto tradizionale del suo maestro Kikuchi Kan, partecipa e diventa sempre più la punta di diamante di una corrente letteraria che sarà nota come Movimento neopercezionista e che nel 1926 produrrà anche un film d’avanguardia scritto da Kawabata stesso.

Proprio il 1926 per Kawabata è una pietra miliare, l’anno di un successo assoluto e indiscutibile che, forse paradossalmente, coglierà con una breve novella d’impianto classico e tutta giocata, tanto per tornare a quanto dicevamo prima, intorno al tema della bellezza. Non posso che riferirmi qui alla Danzatrice di Izu, ancora oggi uno dei suoi racconti più letti. Izu è il luogo, o meglio la penisola giapponese dove approda uno studente delle superiori con tutta la goffaggine e le insicurezze della sua giovane età, e dove poi s’imbatte in una compagnia di artisti girovaghi. Fra questi è la danzatrice del titolo, una tredicenne di cui il narratore – il racconto è in prima persona – s’invaghisce, vivendo per la prima volta un amore platonico ma lacerante. Come giustamente fa osservare Giorgio Amitrano nell’accurata e approfondita postfazione alla traduzione italiana pubblicata da Adelphi, non siamo di fronte a una vera e propria love story, ma a una situazione tanto universale quanto vaga, cioè l’accendersi improvviso nell’animo di un sentimento o di uno slancio immaginativo che potrebbe preludere a una realizzazione concreta ma poi non lo fa, restando latente e preparando a livello subliminale il terreno per future esperienze. Il sentimento amoroso resta appena accennato, è colto con ritrosia ed eleganza nell’attimo del suo baluginare, si sdoppia addirittura (ma sempre senza manifestarsi chiaramente) nell’attrazione che il protagonista prova anche per il fratello maggiore della danzatrice. Al netto di ogni tentazione interpretativa in termini di omosessualità latente, Yukio Mishima scriverà che La danzatrice di Izu va invece letta anche nel contesto del culto delle vergini, la cui dimensione interiore resta inconoscibile e può essere resa solo attraverso ben ponderate immagini e metafore. Bellezza e purezza vanno insomma a braccetto, né possono essere disgiunte. Ne deriva una poetica della potenzialità irrealizzata e soprattutto della sublimazione che informerà di sé tutta l’opera di Kawabata e che è stata non a caso comparata con la nostra tradizione rinascimentale, con il poeta amante che idealizza l’amata e ne fa uno strumento per raggiungere una conoscenza superiore.

Sulla scorta del successo ottenuto con La danzatrice di Izu, ma senza mai rinnegare i propri interessi sperimentali, alla fine degli anni Trenta e soprattutto nell’immediato dopoguerra Kawabata diventa uno dei maggiori esponenti della corrente culturale denominata “Ritorno al Giappone”, che aveva l’ambizione di coniugare tradizione e modernismo, conferma delle radici culturali e apertura all’influenza occidentale, suggestioni spiritualistiche e realismo descrittivo.

Ne Il paese delle nevi, che esce nel 1947 (ma in realtà, come gli accadeva spesso, Kawabata continua a modificare il testo fino alla morte), il protagonista Shimamura, in viaggio in treno da Tokyo, si ritrova in una città termale in cui proverà un’attrazione fatale per la geisha Komako. La storia fra i due – e questo a Kawabata è stato aspramente rimproverato – prescinde da qualunque riferimento al contesto storico, tanto da farlo accusare, come già altre volte in passato, di eccesso di cautela, d’insensibilità storica e addirittura di contiguità al fascismo. Ma anche in questo caso la maestria di Kawabata sta nei mezzi toni, nella riluttanza a far vivere ai propri personaggi una storia d’amore piena e incontrastata che per numerose ragioni (non da ultimo di ordine sociale) non potrebbe in alcun modo realizzarsi.

La stessa ritrosia nell’esprimere i propri stati d’animo caratterizza la toccante vicenda de Il suono della montagna, del 1949, in cui Ogata Shingo, l’anziano protagonista, di fronte al proprio declino fisico (disturbi cognitivi narrati da Kawabata con una grande precisione neurologica) e alla decadenza apparentemente inarrestabile della sua famiglia – che qui simboleggia anche l’implosione della società giapponese del secondo dopoguerra –, sviluppa un legame sempre più forte con la nuora Kikuko, negletta dal figlio e votata all’infelicità coniugale. La figura della nuora permette a Shingo di risvegliare una sensibilità giovanile che si era ormai come addormentata e che negli anni della maturità gli aveva impedito di nutrire qualunque sentimento d’amore, tanto verso la moglie (che è ormai deceduta), quanto verso i figli. Il tema della bellezza è ben presente: immancabilmente, il ravvicinamento fra Shingo e Kikuko avviene attraverso una sorta di agnizione estetica, quando scoprono di essere attratti dagli stessi manufatti, dalla medesima concezione di bellezza. Anche in questo caso il rapporto resta platonico, ma proprio questo gli permette un’intensità e una pregnanza che lo trasportano su un piano diverso, quello che saremmo tentati di definire religioso e che in Oriente è spesso visto come il livello più alto dell’esperienza estetica.

Del 1961 è La casa delle belle addormentate, romanzo controverso e scandaloso, ambientato in una sorta di casa di tolleranza dove anziani clienti possono passare la notte, dietro lauto pagamento, nel letto di bellissime giovani, inconsapevoli perché sedate e profondamente addormentate. Anche qui, soprattutto nel personaggio dell’anziano Eguchi, ritorna il motivo dell’inevitabile invecchiamento e del declino fisico e mentale che spesso diventa anche un cedimento in termini etici, con il corollario di una lampante misoginia. Non è poi così sorprendente che nel 2004, e quindi molti anni più tardi, García Márquez, suo grande ammiratore, vi si sia ispirato, come dichiarato da lui stesso, al momento di scrivere Memoria de mis putas tristes (Memoria delle mie puttane tristi). Nella sua recensione al libro di García Márquez sulla New York Review of Books, un terzo grande scrittore, J. M. Coetzee, giunge alla sorprendente conclusione che, fra i due, il più sensuale, malinconico e pessimistico nonché alla fin fine realistico, è proprio il giapponese.

Per capire tutto quest’interesse anche da parte dei migliori scrittori occidentali, si consideri che a tutt’oggi Kawabata è l’autore giapponese più tradotto al mondo, e in Italia a questa tendenza non facciamo eccezione: Il suono della montagna è stato appena ripubblicato da Bompiani, mentre rispettivamente per Mondadori e Atmosphere Libri l’anno scorso sono usciti in libreria la ristampa de La casa delle belle addormentate e L’adolescente, un racconto in gran parte autobiografico del 1949.

Dicevamo prima del premio Nobel, che nel 1968 venne conferito non tanto e non solo a Kawabata, quanto alla letteratura giapponese nel suo insieme. Il Giappone infatti non lo aveva mai vinto, e per trovarne un altro attribuito a uno scrittore orientale bisogna tornare indietro fino al 1913 e a Rabindranath Tagore. Per noi, oggi, quanto potesse gravare il conferimento del premio su uno scrittore è quasi inimmaginabile, considerata anche l’importanza e il prestigio di cui il Nobel era ancora ammantato in quegli anni. Fatto sta che Kawabata, il quale nelle sue opere non aveva mai abbandonato la sperimentazione stilistica, si trova a dover farsi ora cantore del Giappone tradizionale, quello, per intenderci, delle cerimonie del tè, della fioritura dei ciliegi, della disposizione dei fiori, dei maestri di calligrafia, dei kimono e delle altre vesti tradizionali, così come celebrati dalla secolare tradizione del buddismo zen e dello scintoismo, e in campo letterario della stilizzazione e della tranquilla malinconia per la fragilità dell’uomo incarnata fin dall’undicesimo secolo nel Genji monogatari. Kawabata diventa in definitiva l’araldo di quell’unicità nipponica (seppur depurata da ogni elemento bellicista e nazionalista) con cui forse un Mishima si sarebbe trovato maggiormente a proprio agio. A proposito di fragilità e (ancora una volta) bellezza, va segnalato che il già menzionato volumetto di Adelphi comprende anche il testo di due conferenze tenute da Kawabata alle Hawaii nel 1969 (Esistenza e scoperta della bellezza), in cui lo scrittore approfondisce ulteriormente i temi già trattati nel famoso discorso del Nobel e insiste molto sul concetto di ichigo ichie, l’incontro unico che nasce da una combinazione irripetibile di elementi, parlando a mo’ d’esempio di una fila di bicchieri che, a seconda di come la luce del giorno li irradia, diventano un’epitome della bellezza del mondo. E ne deduce che l’arte da dispiegare per produrla, la bellezza, consiste in un equilibrio sempre nuovo e inedito fra stagioni, luoghi, tempi nonché, per chi scriva e descriva, scelta delle parole adatte.

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