Flavio Fusi
Cronache infedeli

Venediktov e il maiale

Dopo aver chiuso la celebre radio "libera" Ekho Moskvy, gli sgherri di Putin hanno attaccato una testa di maiale davanti alla porta del suo storico caporedattore, Alexey Venediktov. Un tipico avvertimento razzista. Questa è la Russia di Putin

Ho un debito di riconoscenza con i colleghi, ragazzi e ragazze della redazione de L’eco di Mosca, la radio libera che la censura di Putin ha chiuso d’autorità il 3 marzo scorso. Quelle stanze spoglie, quegli studi risonanti, quei lunghi corridoi di passi perduti a poca distanza dalla Piazza Rossa erano un porto sicuro per noi giornalisti stranieri impegnati a decifrare il complicato rebus della transizione russa. In quel confortevole rifugio c’era sempre tempo per una notizia fresca, un thè caldo, quattro chiacchiere come in famiglia. 

L’emittente radiofonica Ekho Moskvy era nata nell’agosto del 1990 e si identificava con l’ultima turbolenta stagione del gorbaciovismo, con il tramonto della glasnost e il fallimento della perestroika. Da quei giorni e per trenta anni questa ardita e talvolta contraddittoria scommessa editoriale ha avuto in sorte di accompagnare passo per passo l’intero circuito della trasformazione russa: dal fallito colpo di stato alla dissoluzione dell’era sovietica, dal bombardamento della Casa Bianca al consolidarsi del regime di Eltsin e della sua cricca di oligarchi, fino all’avvento di Putin e alle avventure imperialistiche del nuovo Zar. Questa voce fuori dal coro oggi tace, imbavagliata da un decreto del Roskomnadzor, l’occhiuta Autorità federale per la supervisione e il controllo delle comunicazioni e dei mass media.

Negli anni, la redazione ha dovuto lottare quasi quotidianamente contro censure e intimidazioni, come nel 2017, quando Eco di Mosca  fu accusata dal Cremlino di aver «contrabbandato una visione filo-occidentale delle elezioni presidenziali». Sempre nel 2017, una redattrice dell’emittente fu accoltellata in un misterioso attentato. Tra i redattori più popolari, la combattiva giornalista e scrittrice Yulia Latynina, che oggi vive in una segreta località degli Stati Uniti, costretta a lasciare la Russia dopo minacce intimidazioni e attentati alla famiglia.

Una radio libera, e un capo redattore libero: il vulcanico, avventuroso, scapigliato Alexey Venediktov (nella foto accanto al titolo), che subito dopo il provvedimento di chiusura è apparso in un video circondato dai suoi redattori: «Ci attendono tempi duri – ha detto – ma intanto continueremo lavorare su you tube».  I tempi duri non si sono fatti attendere. Ieri la giornalista russa Anna Zafesova ha mostrato la foto dell’ingresso dell’appartamento moscovita di Venediktov. Ignoti teppisti hanno lasciato sul pianerottolo una testa di maiale adornata da un’inconfondibile parrucca bianca e hanno inchiodato sulla porta una bandierina ucraina con la scritta “Maiale ebreo.” Un’orrida messinscena per ricordare la macchia indelebile dell’origine ebrea della madre del giornalista, che del resto può vantare in famiglia un nonno Eroe dell’Unione sovietica e un padre ufficiale di marina dell’Armata rossa, morto in servizio.

Dunque, i nazisti Putin se li trova in casa, senza dover andare a stanarli a colpi di bombe intorno a Kiev e Mariupol. E fa una certa funerea impressione il delirio di un uomo che definisce i liberi giornalisti «cimici e pidocchi» e nello stesso tempo paragona il boicottaggio culturale dell’Occidente ai roghi dei libri organizzati dai nazisti nelle piazze delle città occupate. C’è una logica in questo delirio. Il rosso-bruno Putin usa oggi – ma non da oggi – la retorica di due mondi all’apparenza opposti: la grandeur zarista e il messianismo sovietista. Ne viene fuori un mostro a due teste che agita la bandiera della “denazificazione” dell’Ucraina mentre perseguita oppositori e giornalisti per lo stigma di ebreo.

Nella lunga epoca staliniana, i manuali storici erano infestati dalle cosiddette macchie bianche: come nelle foto del regime, la figura dei leader liquidati era di volta in volta cancellata, così intere fasi storiche venivano occultate da una macchia bianca. Nell’esaltante stagione della glasnost – la trasparenza gorbacioviana – queste macchie bianche furono progressivamente graffiate via da una straordinaria stagione del giornalismo finalmente libero: nuovi giornali, nuove riviste, nuove radio, nuovi programmi televisivi strappavano il sipario sulle censure della storia recente.  Ekho Moskvy fu una delle esperienze di punta di quella rinascita editoriale e lo fu poi per trenta anni, con milioni di ascoltatori e con alterne fortune fino alla nefasta censura  di questi giorni.

Oggi a Mosca la libera stampa è nel mirino del potere. Corre su un margine sempre più sottile un quotidiano libero e critico come Novaja Gazeta, che fu il giornale di Anna Politkovskaja e che è oggi diretto da Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace 2021. Il 15 marzo scorso la redazione si è rifiutata di pubblicare rapporti purgati sulla cosiddetta operazione militare speciale e l’edizione quotidiana è uscita con due pagine completamente bianche, in aperto dissenso con la censura di guerra. Queste pagine bianche – così diverse dalle macchie bianche della lunga stagnazione sovietica – sono oggi una testimonianza estrema di libertà, come è un gesto estremo e potente di libertà il cartello bianco innalzato a Mosca da una sconosciuta signora, subito fermata e sequestrata dagli agenti antisommossa del ministero dell’interno russo. La libertà è un gesto.

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