Raoul Precht
Periscopio (globale)

Tabucchi indiano

Da "Notturno indiano" ai racconti de “I volatili del Beato Angelico”, al di là delle evidenti ascendenze portoghesi, Antonio Tabucchi ha spesso esplorato le atmosfere del mistero racchiuse nelle ambientazioni indiane

Con l’encomiabile intento di celebrare il decennale della morte di Antonio Tabucchi, avvenuta a Lisbona il 25 marzo 2012, esce in questi giorni per i tipi di Sellerio, curato da António Mega Ferreira e Tim Parks, un volume dall’emblematico titolo Di viaggi e di sogni, che riunisce due libri pubblicati da Tabucchi in tempi ormai lontani (rispettivamente nel 1983 e 1984), Donna di Porto Pim e Notturno indiano (ne ha appena parlato qui Pier Mario Fasanotti nella sua rubrica).

Anche se lo meriterebbe senz’altro, non fosse che per la sua indiscutibile originalità, non mi soffermerò qui troppo sul primo libro, una raccolta di prose, e quindi racconti ma anche brevi note, che ruotano intorno ai naufragi, e anche – direi immancabilmente essendo ambientate alle Azzorre – intorno alle balene. È la raccolta di testi di Tabucchi che forse più di ogni altra dà conto della sua (peraltro sempre confessata) ammirazione per la letteratura odeporica, quando i libri che la compongono siano però, come lui dice, “onesti”, e quindi non pretendano di ammannirci una verità inalterabile, ma si presentino come esperienze tramutate in invenzione, e in qualche modo falsificate, perché sottratte al dominio della realtà e rese appunto letterarie. Il fascino eterno di un ”altrove teorico e plausibile” rispetto al “dove imprescindibile e massiccio” (e spesso, aggiungerei, banale) in cui sempre ci troviamo a vivere gli consente di inanellare dapprima una serie di riflessioni sull’inevitabilità del naufragio e del fallimento, prendendo le mosse per esempio da quello del poeta Antero de Quental o dei fratelli londinesi Joseph e Henry Bollard o ancora dell’unica donna baleniera, Elisa Nye, per poi passare a un vero e proprio canto, dalle caratteristiche quasi elegiache, con cui omaggia le balene, indifferenti alla presenza umana (almeno finché non vengano, dall’uomo, cacciate) e pure a noi per tanti versi così simili, soprattutto nella malinconia. Storie acquatiche, a metà fra veglia e sogno – e non è certo casuale che il libro sia introdotto doppiamente, e che al prologo faccia seguito un sogno in forma di lettera.

Tra sogno e veglia sembra attestarsi e posizionarsi anche Notturno indiano, testo che credo abbia contribuito come nessun altro – con l’unica eccezione, forse, ma molto più tardiva, del romanzo Sostiene Pereira – a guadagnare a Tabucchi il sostegno incrollabile e convinto di una generazione di lettori, che in questo romanzo breve si sono, ciascuno a suo modo, rispecchiati.

A proposito di veglia, il libro comincia con una bella citazione di Maurice Blanchot, per il quale gli insonni sono in qualche misura colpevoli per il fatto stesso di rendere, a tutti noi, ben presente la notte. Ma il romanzo, come vedremo, si situa al tempo stesso alla confluenza fra insonnia e viaggio, recuperando pertanto un altro dei motivi ossessivi e al contempo estremamente produttivi dello scrittore.

Libro apparentemente autobiografico, in cui autore, io narrante e protagonista della storia sembrano identificarsi in una specie di reductio ad unum, compattandosi cioè in un’unica figura, nell’economia espressiva delle sue cento pagine Notturno indiano narra di una spasmodica ricerca condotta appunto in India da un personaggio di nome Roux, che parla in prima persona. L’oggetto della ricerca è un amico portoghese, tale Xavier che resta tuttavia abbastanza misterioso, così come misteriose sono le ragioni della ricerca stessa e i personaggi femminili, poco più che accennati, che nella memoria di Roux si intrecciano alla vicenda sua e dell’amico. Conoscendo la traiettoria culturale di Tabucchi, la sua opera di studioso e scrittore, e sfruttando qualche indizio disseminato nel testo, non è troppo difficile individuare in Xavier, almeno parzialmente, il fantasma del grande Pessoa, nume tutelare di tutta la sua opera; ma neanche quest’identificazione ha troppa importanza, perché quello che conta, come in tutta la letteratura postmoderna, non è la conclusione o il risultato, ma il viaggio stesso, e da questo punto di vista gli spostamenti del protagonista nel continente indiano danno al lettore l’impressione di un’assoluta necessità.

Il tono del racconto (non per nulla un “notturno”) è estremamente pacato e riflessivo, e gli snodi, che sembrano appunto inevitabili, passano attraverso l’incontro con personaggi che restano con noi per poche pagine, ma sono dotati di un’estrema pregnanza, secondo un procedimento dialogico e dialettico che ritornerà appunto in Sostiene Pereira (1994), ma anche nel precedente Requiem (1991). È come se con questi interlocutori, che sembrano aspettarlo al varco – perché come Tabucchi scrive nel racconto Rebus “la vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur, solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove” –, il protagonista si fosse dato un misterioso e inderogabile appuntamento che fa sì che la ricerca si svolga esattamente come deve svolgersi. Quasi inutile rimarcare che ogni capitoletto è cesellato con estrema cura, ma richiede al lettore anzitutto un esercizio di decodifica appunto fra realtà e fantasia, fra sonno e veglia. Non a caso la maggior parte degli incontri avvengono di sera o di notte, e il tempo che passa fra l’uno e l’altro (tempo per definizione diurno), oltre a essere difficilmente misurabile, pare del tutto inessenziale.

Il finale del romanzo, che cercherò di non svelare completamente, ci introduce a due temi canonici della letteratura, e in particolare di quella degli ultimi due secoli. Da un lato, nel dialogo con la misteriosa Christine, va sottolineata la riflessione sulla fotografia, intesa non come restituzione di una presunta realtà, ma come operazione soggettiva e consapevole del fotografo, il quale con vari strumenti – primo fra tutti la scelta dell’inquadratura – determina la propria poetica. Anche il libro, in fondo, si compone di quegli stessi morceaux choisis cui accenna Christine, d’inquadrature che focalizzandosi sull’oggetto ritratto escludono il contesto, quando esso non rientri nel limitato abbraccio dell’obiettivo, ovvero d’incontri, osservazioni e riflessioni che lo scrittore/protagonista ha avuto cura di sottrarre al flusso indistinto delle cose. Dall’altro lato, compare con prepotenza il tema del doppio, del sosia e della specularità anche allucinatoria, utilizzato qui non solo e non tanto per introdurre un finale a sorpresa (sorpresa che il lettore attento può quasi preconizzare), quanto per cercare di chiudere il cerchio in un modo che non si riveli banale e déjà vu. Alla fine, Roux supera infatti l’assenza di Xavier rendendolo presente con un atto di volontà e lasciandosi oggettivare e rispecchiare in una (forse comune) inesistenza, o in un’esistenza speculare di segno superiore. Ma, come dicevo, preferisco fermarmi qui e non rovinare a nessuno il piacere della lettura.

Accennerò invece almeno a un’altra raccolta di racconti di Tabucchi, I volatili del Beato Angelico, del 1987, in quanto contiene un testo direttamente connesso a Notturno indiano, quasi una conclusione alternativa, presentata però da Tabucchi alla stregua di una falsa pista. (È del resto prerogativa dell’opera aperta prestarsi a molteplici interpretazioni, e Tabucchi ne è perfettamente consapevole.) In ogni caso, nel racconto epistolare dal suggestivo e borgesiano titolo La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera Tabucchi immagina di aver corrisposto, a proposito del romanzo, con tale Xavier Janata Monroy, che nel corso del sesto capitolo incontra alla Theosophical Society di Madras. C’è un primo gioco di specchi con i nomi, giacché lo Xavier che il protagonista di Notturno indiano stava cercando si chiamava Xavier Janata Pinto, un nome molto simile a quello del nuovo personaggio, al punto da poter sembrare intercambiabile. Inoltre, la persona che in Notturno indiano effettivamente incontra a Madras e con cui parla degli Schlegel, di Hesse, di Swedenborg e naturalmente (dulcis in fundo oppure in cauda venenum?) di Pessoa, fa sì parte della Society, ma non ha nome – o almeno il nome non ci viene rivelato per tutto il capitolo, situato non a caso proprio al centro del libro e quindi della ricerca di Roux. In queste quattro lettere che Tabucchi e Janata Pinto si scambiano ora, e che aprono la strada alla possibilità di un’interpretazione del racconto secondo canoni buddisti, le presunte risposte di Tabucchi, ispirate a un totale understatement, finiscono tuttavia per convincerci del fatto che per lo scrittore, che s’identifica esplicitamente con il protagonista della storia, Notturno indiano è stato anzitutto un esercizio di auto-disvelamento – Xavier è probabilmente Pessoa, ma è anche Tabucchi stesso – e di esposizione (forse impudica) di fantasmi privati, meccanismo che è poi alla base, sembra indicare il Nostro, di ogni esercizio letterario che si rispetti. Da notare ancora che la seconda lettera del suo interlocutore è in realtà una reazione ad altre due raccolte di racconti che Tabucchi gli avrebbe inviato insieme alla prima risposta, ossia Il gioco del rovescio (1981) e Piccoli equivoci senza importanza (1985): questi testi ispireranno a Janata Monroy una riflessione sulla frase che dà il titolo al racconto e che è ispirata alla negazione, da parte del matematico Douglas Richard Hofstadter (divulgatore e studioso dei teoremi di Gödel), della dicotomia logica che la filosofia occidentale istituisce fra vero e falso, quando decreta che essi non possono coesistere in un’unica proposizione.

Se le implicazioni logico-filosofiche sono presenti in maggiore o minore misura nell’intera sua opera, ecco che in un altro racconto d’ambiente indiano che fa parte di Piccoli equivoci senza importanza, intitolato I treni che vanno a Madras, Tabucchi (o meglio, forse, il suo indistinguibile io narrante) incontra un personaggio dall’improbabile nome di Peter Schlemihl, ovvero di colui che nel racconto di Chamisso perde la sua ombra e dunque il suo doppio. Tabucchi conclude così la sua ennesima quest: “Non escludo che la mia immaginazione abbia lavorato più del consentito.” Ma si sbagliava, perché, come ci ha dimostrato in seguito con un altro sdoppiamento magistrale, quello fra l’anziano Pereira e il giovane Monteiro Rossi in Sostiene Pereira, in definitiva l’immaginazione dello scrittore, anche a prescindere dai risultati che ottiene, non può far altro che lavorare incessantemente. E continuare a stupirci.

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