Nicola Fano
Il senso di una crisi

Putin e Čechov

La Russia europea e la Russia asiatica, il primato della tradizione e quello del mercato: rileggere Čechov in tempi di guerra può essere utile a capire se in Putin prevalga l’«anima Ljuba» (l'attaccamento al passato) o l’anima «Lopachin» (il ghigno che accompagna le bombe)

«Spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo»: quando ho letto, nei resoconti della videoconferenza tra Xi Jinping e Joe Biden in margine all’invasione russa dell’Ucraina, questa limpida metafora usata dal presidente cinese, ho pensato a Čechov. In un suo racconto abbastanza celebre, Tre anni, Čechov immagina – in una scena tutto sommato marginale – che un tal Počatkin completi l’ordinazione di un pasto con questa battuta: «Inoltre, una porzione della gran maestra di calunnia e maldicenza con purea di patate». Al che, dopo un tempo di sorpresa e uno di riflessione, il cameriere va in cucina e ne torna portando in tavola un piatto di lingua con contorno di purea di patate. Quando si dice parlare per motti e metafore! Io non so se Xi Jinping si consideri un uomo dotato di ironia, ma, certo, Čechov teneva molto al suo lato “comico” (propriamente detto): gli era debitore, giacché grazie a una cospicua produzione di novelle comiche si era affrancato dalla povertà prima e dalla professione medica poi, onde dedicarsi esclusivamente alla scrittura.

Quel che lega i russi ai loro vicini cinesi va al di là delle ideologie e degli interessi commerciali.

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Cechov è nato a Taganrog, sul Mar d’Azov, un centinaio di chilometri a est di Mariupol (nella foto accanto al titolo). In città c’è un teatro ottocentesco in stile italiano (nella facciata, non nell’interno) intitolato ora, ovviamente, a Čechov: quasi una copia del teatro di Mariupol che i russi hanno bombardato senza tanti riguardi. Edificata – da architetti italiani – tra il Settecento e l’Ottocento zarista come grande scalo commerciale, Taganrog oggi è un luogo di villeggiatura: al tempo di Čechov (vi nacque nel 1860) era già decaduta come porto commerciale. Il Mar d’Azov è poco o pochissimo profondo, e limaccioso, sicché i porti si insabbiano facilmente. I Čechov erano ex servi della gleba: il nonno di Anton aveva comprato la propria libertà pagando una cifra per l’epoca spaventosa ossia indebitando la famiglia per generazioni; il padre gestiva un piccolo esercizio commerciale che fallì presto. La famiglia dovette scappare nottetempo a Mosca («A Mosca! A Mosca!», come ripetono ossessivamente le Tre sorelle) lasciando i due figli maggiori a Taganrog: Anton visse in paese di ripetizioni, nella più completa povertà, fino al completamento degli studi superiori quando, vinta una borsa di studio, andò a Mosca a studiare medicina salvando la famiglia dalla miseria proprio con il suo premio. Ma almeno, rimasto solo a Taganrog, poté evitare le botte del padre: un tipo manesco. Retaggio genetico, lo giustificava il figlio: mio padre ci picchia perché il padre lo picchiava perché il padrone lo picchiava, diceva più o meno Čechov. Genetica della violenza: non solo in Russia, si dirà. Ma ora, lì, quella genetica è di stringente attualità.

Anton Čechov

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A Mosca, il russo Čechov visse poco o nulla. La parte più lunga della sua breve vita (quarantaquattro anni) la consumò in Crimea, a Jalta, luogo che si è ripetutamente scontrato con la storia. Ai tempi di Čechov, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ora: è curioso come certi luoghi ricorrano nell’immaginario storico ogni volta cambiando di segno. Ai tempi di Čechov, la Crimea era un pezzo d’Europa incistato in Russa. Un’aporia assoluta; non per ragioni culturali o di civiltà – per carità! – ma per ragioni climatiche: niente neve, vento tiepido, aria pulita, caldo. Ammalato di tubercolosi fin da ragazzo (pare per colpa delle botte del padre), Čechov vi cercava salute: vi comprò diverse ville, appena divenne ricco e famoso. Quando le sue condizioni peggiorarono, si spostò più a Ovest. A Parigi, a Nizza. Provò anche a Roma, nel 1901, quando ormai la sua vita era una costante battaglia con la malattia, ma, disdetta, fu accolto da una delle rarissime nevicate romane: scappò.

Strano come l’identità russa sia intrisa, addirittura inzuppata di Europa: strano come molti suoi governanti e principi da ciò abbiano tratto ora paura ora fastidio. Ma coltivando un sogno di contiguità.

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Quando debuttò, all’inizio del 1901, Tre sorelle fu un mezzo fiasco. Come tutte le altre opere teatrali di Čechov, del resto: i russi lo amavano come narratore, non come autore teatrale. Ma poi arrivava Stanislavskij, scombinava un po’ i testi originali, li rimetteva in scena a suo modo e, regolarmente, dopo qualche mese, le opere di Čechov trionfavano. Čechov era abbastanza seccato dai modi spicci di Stanislavskij il quale, diceva, trattava le sue opere come drammi e non come commedie leggere quali egli, invece, le considerava (anche oggi, da questo punto di vista, il povero Čechov avrebbe di che risentirsi). Comunque, il fiasco iniziale di Tre sorelle ha ragioni interessanti: non fu accettato, più che non capito. Vi si narra di quattro fratelli (tre donne e un uomo) incapaci di vivere altro che nell’ombra di un padre invadente. La loro casa è l’unico (presunto) centro di mondanità del paese di Perm’, una località della remota provincia della Russia europea (ancora!). Il salotto dei fratelli Prozorov è frequentato dagli ufficiali di stanza nella caserma locale di Perm’: con i loro maschi modi, questi soldati inondano di vecchia cultura casa Prozorov, impossibile immaginare un futuro. Qui nessuno vive una vita concreta, tutti sanno solo vagheggiare il passato, ossia l’antica albagia di papà Prozorov che si rispecchia nella nobiltà zarista venerata dai militari di stanza a Perm’. Non succede niente, solo parole e parole e parole. E illusioni vuote: «A Mosca! A Mosca!». È un copione terribile sulla dissoluzione della Russia zarista, sulla sua ormai evidente inconsistenza, qualcosa che sarebbe stato spazzato via – così si credette, almeno – dalla Rivoluzione d’Ottobre. All’epoca, non fu accettato, appunto.

E, oggi, quante sorelle e fratelli Prozorov parlano e vagheggiano di fughe all’indietro di fronte alla tv che racconta dell’“azione speciale” in Ucraina?

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Čechov, benché abbia raccontato con un quindicennio d’anticipo la caduta finale dello zar, era un conservatore: ogni volta che qualcuno cercava di tirarlo per la giacchetta chiedendogli una dichiarazione pubblica in favore degli studenti che protestavano contro lo zar o a sostegno degli scrittori – suoi amici – che li difendevano (come Gor’kij, per esempio), rispondeva alla maniera di Bartleby lo scrivano di Melville: «Preferirei di no». Quando non poté più farne a meno (lo zar per ragioni politiche aveva espulso Gor’kij dall’Accademia delle Scienze con grande scandalo e tutti gli intellettuali progressisti si erano dimessi per protesta), mandò una lettera di questo tono: «Dopo aver a lungo riflettuto, devo giungere a una sola conclusione, per me molto penosa e spiacevole: quella di chiedervi rispettosamente di dispensarmi dal titolo di accademico onorario». C’è un che di comico, di comicamente čechoviano in questa circonvoluzione linguistica. Ma anche il senso di un universo dove le distinzioni tra progressismo e conservatorismo sono assai diverse che da noi.

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Può essere utile rileggere Čechov per capire da quale cultura sociale nasca l’infame guerra di Putin; dove si alligna il consenso di cui gode da quelle parti. E magari ci può suggerire anche come andrà a finire, chissà. Il giardino dei ciliegi è l’ultimo testo di Čechov (1903): vi si racconta di una vecchia proprietà immobiliare (la villa con il giardino del titolo) la cui vendita potrebbe risanare e anzi prolungare l’agiatezza della vita della protagonista, Ljuba – una nostalgica gentildonna che si divide tra Mosca e Parigi – e il suo sciocco fratello Gaiev. In effetti, il figlio dell’ex servo di casa, tal Lopachin, avrebbe un buon progetto: si dice disposto ad acquistare la proprietà, abbattere la vecchia villa e le piante di ciliegio e al loro posto costruire delle ville a schiera, insomma delle residenze popolari, una delle quali destinare a Ljuba e famiglia. Ma orrore e sconcerto accompagnano questa proposta: il giardino dei ciliegi è il simulacro della memoria di famiglia, dell’identità stessa della comunità che in essa si riconosce, una collettività che si sente circondata e minacciata da valori insopportabili! Sennonché, è impossibile anche solo immaginare una sistemazione diversa dall’attuale. Salvo che i debiti corrono e la proprietà va all’asta. Alla fine, sarà proprio Lopachin ad aggiudicarsela; per un prezzo quasi irrisorio, per altro, molto inferiore a quello offerto all’inizio. È il riscatto del mondo nuovo – palazzinari, affaristi, futuri oligarchi – dai torti patiti, ma consumato calpestando le antiche tradizioni della Grande Madre Russia. Se Tre sorelle preconizza la fine dello zarismo, Il giardino dei ciliegi vede fino oltre la Rivoluzione, fino al trionfo dell’oligarchia corrente (c’è un giovane falso e ubriacone, Trofimov, che pare il giovane Eltsin!). Si tratta di capire se in Putin prevalga l’anima Ljuba, come ha cercato di far credere con la lunga dichiarazione di guerra, o l’anima Lopachin, come invece dimostra il ghigno che accompagna le bombe su scuole e palazzi ucraini. Sotto le macerie della memoria inutile di Ljuba e degli affari sporchi di Lopachin rimane Firs, vecchissimo servo di casa – quasi uno dei bombardati di Mariupol – cui Čechov regala la battuta finale del copione: «Chiuso. Se ne sono andati. Si sono scordati di me… non fa niente… io mi metto qua… La vita è passata e io è come se non l’avessi vissuta».

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